«EL DANTE!», DIO DI ROSERIO. Noterelle di sport e letteratura

di Trifone Gargano

Il romanzo Il dio di Roserio, di Giovanni Testori (1923-1993), fu pubblicato, in prima edizione Einaudi, nel 1954, accolto nella collana dei «Gettoni», diretta e curata da Elio Vittorini. Successivamente, ebbe altre edizioni e ri-scritture, sempre per Einaudi, ma anche presso altri editori, tutte, con largo favore di pubblico (e di critica). La materia narrativa di questo primo romanzo di Testori, che si era già fatto notare come raffinato critico d’arte (allievo di Roberto Longhi, e specialista del Cinque-Seicento lombardo), tornò, qualche anno dopo, nella silloge di racconti Il ponte della Ghisolfa, edito da Feltrinelli, nel 1958, come ritratto di quella folla di personaggi popolari della periferia milanese, degli anni Cinquanta del secolo scorso, primo tempo della commedia umana, che Testori andava componendo, tassello dopo tassello, e che, dopo, avrebbe preso il titolo complessivo de I segreti di Milano. Con continue ri-scritture, variazioni di prospettiva, di linguaggi, e di tinte espressive, sempre all’interno di quell’universo urbano ed extraurbano milanese, che si dilatava vorticosamente, inglobando, nell’area metropolitana, antichi casali, borghi e municipalità, Testori metteva in scena una brulicante marea umana, osservandola con lucidità, registrandone aspirazioni, conquiste, speranze, ma anche inquietudini, umiliazioni, vizi e turbamenti.

Il «dio» di Roserio è Dante Pessina, ciclista dilettante, in forza alla «Vigor», autentico fenomeno sulle due ruote, meccanico e garagista, ma con un sicuro avvenire nel ciclismo professionistico (come ripete di continuo la voce narrante del romanzo: la «Bianchi» lo tiene sott’occhio, già da qualche tempo, pronto a ingaggiarlo, e a farne un professionista). Questo è il suo romanzo. Con molta probabilità, se si escludono precedenti scritti, come i resoconti narrativi del Giro d’Italia, di Vasco Pratolini (del 1947 e del 1955), quello di Testori è il primo (lungo) romanzo italiano interamente dedicato al mondo del ciclismo, e a tutti i suoi attori: capi, gregari, dirigenti, staffette, giudici di gara, belle donne, tifosi, folle di gambe, braccia e teste acclamanti, lungo i bordi delle strade, di quella provincia milanese, che, come il resto d’Italia, era in gran fermento, e che provava, anche con il ciclismo, e, più in generale, lo sport, a dimenticare la guerra.

[…] tutte le gole che gli gridavano dietro il suo nome: messa-Vialba e messo-Roserio a aspettarlo, a portarlo in trionfo, su, in sulle spalle: «L’è lu!» «L’è el Dante!» «El Dante!» Già da prima che imboccasse il rettilineo, i bordi della strada gli erano venuti, prima incontro, poi, subito, addosso, pieni di teste, mani, gambe, sottane, la puzza dei sudori, le strisce di luce del sole che stava cadendo su quelle teste agitate dal vento di lui che arrivava, «la sua mama» che finalmente avrebbe capito perché voleva piantar lì tutto, box, lavoro, signor Gino e non pensare che a correre. E quest’anno doveva ripetere il trionfo, costasse quello che costasse. [p. 84] 

Colpisce la lingua del romanzo di Testori, cesellatore della parola, per il suo singolare pastiche tra lingua nazionale, gergo e dialetto, con prevalenza accordata dall’autore alla mimesi realistica (fino al più crudo e minuto descrittivismo), con sprazzi di altissima poesia, che fanno capolino, di tanto intanto, e improvvisamente, nella pagina, altrimenti grigia e plumbea, come il cielo lombardo (autentiche impennate poetiche, che stupiscono e che spiazzano il lettore):

Nell’abbassarsi, l’aria infuocata e viola, liquefacendosi dentro il cristallo posteriore della macchina, gli si schiacciò dentro gli occhi. Allora, per evitare lo sbattito, girò la testa. Ma s’incontrò di nuovo nell’incendio dei riflessi che, da Roserio, i vetri rimandavano su tutto l’orizzonte. Così, mentre svitò il tappo e, seppure con minor forza, anche dopo, quando cioè staccò dal gancio il becco della canna e l’introdusse nel serbatoio, continuò ad aver sopra e dentro gli occhi, quella macchia luminosa e dilatata, come se tutto quanto aveva davanti e toccava, tappo, becco della canna e carrozzeria, andasse sciogliendosi in una colata d’oro e acciaio [p. 121].

Lo sport è fatto di regole, da condividere e da rispettare. Sia gli sport individuali, che quelli a squadra, o collettivi, si fondano su regole e su principi rigidi. La pratica sportiva, allora, non è solo agonismo o competizione, ma anche, direi, soprattutto, apprendistato civile. Concetti che, in una recente intervista, concessa alla «Gazzetta dello sport» (02.01.2021), ha pure ribadito papa Francesco, come fondamento e della pratica sportiva, e della società civile, indicando con 7 parole chiave i nuclei tematici della sua riflessione: lealtà, impegno, sacrificio, inclusione, spirito di gruppo, ascesi, riscatto. Lealtà e spirito di gruppo, dunque, sono i due concetti, tra quelli indicati dal pontefice, che meglio si coniugano con il principio civile del rispetto condiviso delle regole, che ciascun sportivo è chiamato a praticare (non a enunciare), in campo, e fuori dal campo agonistico.

Il ciclismo è uno sport che può apparire sport individuale, ma che, in realtà, anche nelle sue dimensioni dilettantistiche, è uno sport di squadra, con rapporti ben definiti tra il gregario e il capo squadra, il leader del gruppo. Gran parte de Il dio di Roserio, infatti, racconta dei turbamenti e dei sensi di colpa di Pessina Dante, che è il leader della società ciclistica «Vigor», per un incidente piuttosto grave, occorso al suo gregario, tal Sergio Consonni, spericolato e indisciplinato. Probabilmente, lo stesso Dante ha qualche responsabilità nella caduta di Sergio. Il romanzo non lo chiarisce del tutto, ma lo lascia intendere, in ragione della crisi di coscienza che attanaglia Dante, fino al punto di pensare di abbandonare tutto, gara e ciclismo, sogni di gloria, soldi e professionismo.

– E adesso per un po’ di paura vorresti piantar lì tutto [gli rinfaccia il signor Todeschi, presidente della «Vigor», in un concitato dialogo], carriera, soldi, gloria, speransa… Lo sai che ti guardano -. Glieli voleva metter lì, davanti, gli occhi di quelli della Bianchi, oramai non era più un mistero, che l’avevano fatto seguire, in qualche gara, e che a farlo seguire avrebbero continuato. Gliel’avevano detto. Magari anche all’«Olona» [la prestigiosa gara che Pessina Dante si appresta a gareggiare, di lì a poche settimane, e che, se vincesse, lo consacrerebbe come campione indiscusso della sezione dilettanti, aprendogli, cioè, le porte per il professionismo, e per ben altri contratti con la «Bianchi», o con altre grosse società del ciclismo professionistico] […]

– Non capisco proprio, – fece alla fine il presidente, – perché tu ti sia messo in testa d’aver anche solo una parte di responsabilità in quello che è successo.

– Non mi sono messo in testa niente, – disse il Pessina, subito, in un tono violento e cupo. Nel dirlo si spostò, facendo gravitare la persona sul gomito destro.

– E allora cosa ti mangi il fegato per fare? Quello che potevi fare l’hai fatto. Quante volte gliel’avevo detto che se continuava così, un giorno o l’altro si sarebbe rotto la testa? Non glielo continuavi a dire anche tu? Forse gliel’hai gridato dietro anche alla «Milanesi»… [pp. 63 e 67]

Pagine e pagine di tormento interiore, nelle quali Pessina si strugge. L’abile penna di Testori riesce a dar conto di questo tormento interiore del campione, con uno stile caratterizzato da frequentissimi e ben dosati flash-back, tra più piani narrativi, facendo venir fuori, pian piano, la voce del necessario cinismo, che spingerà «el Dante», oltre ogni ragionevole turbamento, a riprendere gli allenamenti su strada, finito il turno di lavoro al garage e stazione di benzina del signor Gino, dove si guadagna da vivere, per sé e per sua madre, e prepararsi degnamente per l’«Olona», l’importantissima gara provinciale, che si disputerà di lì a soli dieci giorni (si tratta, in realtà, della «Coppa Bernocchi», valevole per la qualificazione al Giro d’Italia, una classica del ciclismo lombardo, che si disputa dagli inizi del secolo scorso, e che vanta un palmares di tutto rispetto, con campioni che, giovanissimi, l’hanno vinta, o hanno fatto piazzamento, del calibro di Girardengo, Bartali, Coppi, Gimondi, Moser, Saronni, e tanti altri).

La vocina cinica, pensando al Sergio, al suo gregario avventato e indisciplinato, pian pianino, prende forza, e vien fuori:

Doveva stare ai comandi. Invece aveva voluto fregarlo: scalzarlo: passare in testa: mettere sul tappeto la questione del capo e del servo. Se avesse vinto, l’avrebbe fatto: bastava anche che arrivasse e che facesse la spia: bastava che dicesse al Todeschi come si era svolta la corsa e chi aveva tirato, anche in certe salite. La spia l’avrebbe fatta perché era un porco: quello che gli serviva, l’avrebbe detto: e non solo al Todeschi [p. 97]

Del resto con quei dilettanti della merda sarebbe rimasto ancora per poco. Lo seguivano: quelli della Bianchi, eccetera, eccetera. Ecco. Sarebbe passato coi professionisti. La tuta l’avrebbe lasciata a un altro. E anche il posto al garage […] (p. 120)

Oltre al ciclismo, il libro ci testimonia della popolarità di altri due sport, l’uno amatoriale, quello delle bocce, largamente praticato, ancora oggi, nelle regioni del centro-nord italiano; l’altro, invece, professionistico, il popolarissimo calcio, con continui riferimenti ai mitici scontri delle due maggiori squadre milanesi, di quegli anni, e di oggi (Inter e Milan):

Si sporse dal davanzale: guardò giù, nel cortile. Le bocce, cadendo lente dalle mani, sul campo, per un calcolo magistrale, si disponevano, una dietro l’altra, vicino al pallino, diminuendone sempre più, intorno, lo spazio libero […].

– Vieni anche tu a San Siro? – domandò alla fine, voltando la testa verso il Pessina, con curiosità nello stesso tempo che con paterna confidenza. Il signor Gino sapeva bene che il Pessina gli avrebbe risposto di no, perché doveva allenarsi […] (pp. 56 e 111)

Questo è il romanzo di un campione, Pessina Dante, il dio di Roserio, piccolo borgo, oggi inglobato nell’area metropolitana milanese, nella zona nord-occidentale della città, ottavo Municipio:

– Dante!
– Te set un dio, Dante!
– Un Dio!
Mentre le mani di due ragazzi gli toccavano le gambe e altre di altri, si posavano qua e là sul corpo, tirandolo per la maglia, chiamandolo, perché vedesse che erano lì tutti a partecipare al suo trionfo […] (p. 166)

La scena conclusiva del romanzo, con la folla festante che attornia il vincitore, ricorda l’analoga scena descritta da Dante, nell’incipit del canto VIII del Purgatorio:

«Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;

con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;

el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.»
[vv. 1-9]

Quando si conclude il gioco della zara [con i giocatori che abbandonano il tavolo da gioco], colui che perde resta amareggiato, ripetendo le giocate [i tiri dei dadi], e, deluso, impara [per poter vincere in futuro]; gli spettatori [tifosi] se ne vanno con il vincitore; chi gli cammina davanti, e chi lo afferra da dietro, chi, mettendosi di fianco, si fa notare; ma egli non si ferma e ascolta ora l’uno, ora l’altro; colui al quale [egli] porge la mano, non fa più ressa; e così si difende dalla calca.

Il primo campionissimo del ciclismo italiano è stato Costante Girardengo (1893-1978), la cui storia, tra leggenda e realtà, è stata immortalata, di recente, da una bellissima canzone di Francesco De Gregori, Il bandito e il campione, del 1993, e da un appassionante sceneggiato televisivo Rai, La leggenda del bandito e del campione, del 2010, che evocano, entrambe, la storia d’amicizia, di rabbia e d’amore, di Sante Pollastri, il bandito, e di Costante Girardengo, il campione.

Diventato professionista a soli diciannove anni, Girardengo vinse due volte il Giro d’Italia, nel 1919 e nel 1923; sei volte la classicissima Milano-Sanremo (1918, 1921, 1923, 1925, 1926 e 1928); più volte il giro di Lombardia e di Piemonte, la Milano-Torino, ecc. Fece piazzamenti e record vari, e tantissimo altro ancora. Fino a meritarsi, per l’appunto, il titolo di «campionissimo», che, per lui, coniò l’allora direttore della «Gazzetta dello sport», Emilio Colombo.

«Vai, Girardengo, vai grande campione,
nessuno ti segue su quello stradone!
Vai Girardengo, non si vede più Sante
è sempre più lontano, è sempre più distante!»
[De Gregori, Il bandito e il campione]

Storie di prima del motore, canta De Gregori, nella sua canzone, alludendo al ciclismo eroico dei primi decenni del secolo scorso; ma la stessa, amara, riflessione, con una punta di dolente ironia, la si legge anche in una pagina del romanzo di Testori:

Che proventi ha il nostro sport? Con la manìa che adesso sta venendo per le vespe, le lambrette, e tutti quei mosconi lì! [p. 149]

La miniserie televisiva Rai, La leggenda del bandito e del campione, con regia di Lodovico Gasparini, fu mandata in onda nel 2010, con Beppe Fiorello nel ruolo del bandito, Sante Pollastri, e con Simone Gandolfo in quello del campione, Costante Girardengo.

Per chi volesse ascoltare la canzone di Francesco De Gregori:

 

 

 

 

Per chi volesse guardare alcune scene dello sceneggiato televisivo La leggenda del bandito e del campione:

Per chi volesse leggere integralmente l’intervista sullo sport, concessa da papa Francesco alla «Gazzetta dello sport»:

 

 

 

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