E COME POTEVAMO NOI CANTARE?

di Trifone Gargano

In tempo di coronavirus, per solidarietà, nei confronti degli ammalati, e di chi è in prima linea a prestar loro soccorso, assistenza e cura, medici e infermieri, prendiamo parte a iniziative che si svolgono sui balconi delle nostre case, e sui terrazzi delle nostre abitazioni: flash mob, concerti improvvisati, applausi, canzoni, declamazione di versi, esposizione di bandiere e di messaggi…

Questa è decisamente una maniera spontanea e semplice di manifestare la nostra vicinanza, pur stando lontano, a chi soffre e a chi opera in primissima linea. Al tempo stesso, in questi giorni, sono sempre più frequenti pure le voci di chi, vivendo nelle regioni maggiormente colpite dal contagio di coronavirus, come la Lombardia, il Veneto, il Piemonte, con la tristissima scia di bare, come nel caso drammatico della città di Bergamo e del suo hinterland, chiede silenzio. Abbiamo ascoltato tutti, pochi giorni fa, il composto e commosso messaggio del Magnifico Rettore dell’Università di Bergamo, Morzenti Pellegrini Remo, che ha fatto notare il dignitoso e dolente silenzio dei loro balconi.

La poesia, anche in questo caso, serve per trovare ragioni di senso, pur in situazioni così drammatiche (e imprevedibili), nelle quali stiamo vivendo le ultime settimane, da Nord a Sud del nostro Paese. E la poesia di Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici, che è del 1946, e che si riferisce a ben altri drammi dell’Italia, quelli legati alla guerra di occupazione nazi-fascista, ci fa riflettere, a cominciare dal verso di apertura:

E come potevamo noi cantare

che, nella sua forma concisa e secca, non presuppone alcun tentennamento, o dubbio. Dinanzi a quel dolore, come dinanzi al nostro dolore:

fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio […]

 abbiamo il dovere morale di tacere, di appendere le cetre:

Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento».

Di certo, usciremo da questo nostro Inferno, e, esattamente come Dante Alighieri, anche noi torneremo «…a riveder le stelle». Quando questo accadrà, speriamo presto, con le cicatrici e con le ferite (individuali e sociali) che il virus avrà lasciato, e con la sua tristissima sequela di morti, ci ricorderemo dei versi finali della poesia San martino del Carso (1916), di Giuseppe Ungaretti, scritta nelle trincee della prima guerra mondiale:

Ma nel cuore

nessuna croce manca

è il mio cuore

il paese più straziato

 

Ungaretti

Molto probabilmente, anche noi, come accadde a Dante Alighieri, dall’alto del Cielo delle Stelle fisse, che guardò i sette pianeti sottostanti, per notare la vana superbia umana; anche noi, si spera che avvenga, lanceremo un’occhiata alla Terra, e sorrideremo, d’un sorriso amaro, di questa nostra «aiuola che ci fa tanto feroci» (Pd., c. XXII, 151), nella quale, come biglie impazzite, ciascuno di noi, corre, s’affanna, litiga, e non comprende la vanità delle nostre azioni, e l’autentico senso della vita:

e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in malvagità:distante riparo.

L’aiuola che ci fa tanto feroci [vv. 148-51]

Per chiudere, con un’analoga riflessione, contenuta, quest’ultima, nei versi finali della poesia X agosto (1896) di Giovanni Pascoli, sempre in merito all’«aiuola», alla terra come puntino («atomo opaco»), della nostra vanità, e della nostra malvagità:

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi

sereni, infinito, immortale,

oh! d’un pianto di stelle lo inondi

quest’atomo opaco del Male!

La differenza, tra Dante e Pascoli (e, anche, con noi contemporanei), sta tutta nella solitudine del Cielo di Pascoli (e nostro), nel suo essere, sì, un Cielo sereno, infinito e immortale, ma anche, drammaticamente, un Cielo totalmente indifferente al dolore umano. Per Dante, no. Egli, infatti, che oramai è giunto nel Cielo delle Stelle fisse, e che quindi è già molto, molto vicino a Dio (Beatrice gli dice: «Tu se’ sì presso a l’ultima salute», v. 124), può ben concludere il canto, dopo aver ironizzato sull’umana superbia, con la contemplazione del volto luminosissimo della sua donna:

poscia rivolsi li occhi a li occhi belli [v. 154]

 

 

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