“DOGHTOOTH”: SULLA CRESTA DELLA NEW WAVE GRECA

di Renata Laserra

L’estate sta ormai chiudendo i battenti e, salvo la fortunata eventualità di trovare magicamente la fatidica letterina da Hogwarts nella propria casella postale, anche quest’anno settembre è alle porte.
Tra l’incertezza circa la prossima modalità di ripresa scolastica o lavorativa e la voglia di concedersi (ancora o finalmente) del meritato relax, ci si guarda indietro per maturare il brainstorming del periodo estivo appena trascorso, certamente sui generis, ma non privo di interessanti iniziative culturali e artistiche che hanno solleticato l’interesse di molti nonostante il caldo desertico.
Nel rispetto delle misure di sicurezza, anche il mondo del cinema ha lentamente avuto la sua ripresa.
Come ben sappiamo il periodo d’emergenza ha costretto persino i più spietati cultori della sala all’esperienza del cinema verticale sullo schermo dei propri iphone o, meno peggio, dei computer e, sebbene i siti streaming siano stati al passo coi tempi, offrendo un ampio ventaglio di possibilità per appassionati e non, la magia della visione in loco si è dimostrata ineguagliabile.
Con l’arrivo della bella stagione, grazie a tanti lavoratori nel mondo dello spettacolo, è stato possibile riesumare i festival e le proiezioni, magari sotto le stelle e con una bevanda rinfrescante da sorseggiare.
Ad oggi l’aria si rinfresca appena, ci si accinge a riappropriarsi del locus amoenus del cinema e, seppur marginalmente al noto “Tenet” di Nolan a cui è spettata l’inaugurazione delle sale, il primissimo vento settembrino ha sollevato la polvere da capolavori del panorama internazionale che per anni sono rimasti misconosciuti nelle nostre sale.
Dopo l’indispensabile decollo invernale del cinema coreano sul grande schermo italiano, di cui ricordiamo il premiatissimo “Parasite” (Che si è aggiudicato l’oscar per miglior fiLm non straniero) del talentuoso Bong Joon Ho, è il turno del cinema dell’Olimpo.
Sull’onda dell’accattivante “New Wave Greca” , il focus si sposta su Yorgos Lanthimos, che ne è considerato caposaldo. Il suo cinema? Anestesia di solitudini per definizione.
Grazie a Lucky Red, società indipendente di produzione e distribuzione di cinema, dal 27 agosto lo sguardo disincantato sull’umanità scarnificata del regista greco sta catturando il grande schermo con l’inedito “Dogtooth”, classe 2011, premiato nella sezione “Un Certain Regard” del sessantaduesimo Festival di Cannes e candidato per l’Oscar miglior film in lingua straniera.

Correva l’anno 2018 quando la magistrale interpretazione di Olivia Colman nelle vesti della regina Anna di Gran Bretagna ne “La Favorita” faceva vibrare le sale al ritmo della fiaba dark spudoratamente ironica e dissacrante firmata Lanthimos.
Ancora, andando a ritroso nei meandri della sua filmografia, ricordiamo il distopismo sentimentale di “The Lobster” e l’agghiacciante “Sacrificio del cervo sacro”.
Quest’ultimo, agli occhi dei più attenti Lanthimosiani, è maturazione di un’attenzione volta ad oscure e tragiche dinamiche familiari il cui seme era già stato piantato nel terreno di “Dogthooh’’.
“Doghtooh’’, in greco “Kynodontas’’, ha coronato sul fronte ellenico l’esordio dell’irrequieto regista sulle tracce della strada che il suo primogenito ‘’Alps’’gli aveva già spianato.
Non vi ho ancora convinti a recarvi nelle sale? Beh, per stuzzicare la vostra curiosità, lasciatevi catapultare in un’atmosfera cupa, contornata dalle mura di una modernissima villa quasi sempre sigillata. Ad abitarla, un nucleo familiare comune solo all’apparenza, le informazioni private dei cui componenti poco importano: si chiameranno Madre, Padre, Figlio, Figlia Maggiore, Figlia Minore (interpretati, in ordine, da Michele Valley, Christos Stergioglou, Christos Passalis,Angeliki Papoulia e Mary Tsoni).

Per apprezzare l’opera nel suo insieme occorre svincolarsi da qualsivoglia parametro di normalità.
Passo dopo passo, il dipanarsi della trama elargisce allo spettatore una chiave di lettura della realtà distorta e fittizia mediante il processo d’immedesimazione nei personaggi che, nel vivo di un ‘’The Truman Show’’ versione horror, ne fanno inconsapevolmente parte.
È il volere maniacale del Padre e della Madre, dall’alto di un approccio demiurgico, a manovrarli come burattini nelle mani di un mondo totalmente mistificato.
Gli insegnamenti del Padre rivolti ai figli costretti in casa risuonano come un fulmine a ciel sereno:‘’L’animale che ci minaccia è un gatto. L’animale più pericoloso che ci sia. Mangia la carne, la carne dei bambini in particolare … Dopo aver lacerato le vittime con i suoi artigli, le divora con zanne acuminate. Prima la faccia e poi l’interno corpo della vittima. Se resterete all’interno, sarete al sicuro. Dobbiamo essere pronti nel caso in cui invada la casa o il giardino’’, e così via.
Mare è una poltrona in cuoio. Autostrada è un vento molto forte. Escursione è un materiale durissimo per fare i pavimenti e carabina è un bellissimo uccello bianco.
La claustrofobica bolla che è “Doghthooh”, però, non attutisce il contatto con la realtà: lascia filtrare al suo interno tutte le contraddizioni di quest’ultima, deformandole come sotto una lente d’ingrandimento.
È religiosa la ricerca stilistica di un linguaggio avulso dagli standard ma che rientra, inevitabilmente, nel topic del regista: personaggi dal temperamento insipido; scene veicolate dalla carnalità; momenti corali che si fanno slancio di una collettività condivisa; espressioni che assumono forme scabrose ingigantite non dall’oggetto in sé ma dall’immagine che ne danno: un gioco visivo in barba alla logica tra significante e significato.
Dunque, in Yorgos, così come nel cinema ellenico, di lezioso c’è ben poco.
Così la nausea dei sensi si cristallizza in uno schema linguistico e stilistico gustosamente atroce e perverso esasperandone la rituale gestualità.
Scevri di consapevolezza e privi di qualunque velleità personale, i Figli vivono in un processo di mimesi plasmato dal teatro degli orrori, diventando parte di un circolo vizioso disturbato (e disturbante) che trova spazio e si trasforma all’interno della caverna di Platone, ma rifugge la luce non appena ne scopre uno spiraglio fuori dalla prigione.
Un perfetto quadretto Hanekiano che agisce nel suo insieme a corollario a circostanze infauste rese immagini in movimento dalla creazione geometrica di Lanthimos, attraversata nel profondo dalla luce chiara e fuorviante di Bakatatakis.

Nella sua asettica irrazionalità ‘’Doghthooh’’ è un film intenso, spietato, concitato ed estremo.
Pioniere d’originalità, Kynodontas possiede tutti gli elementi per essere eletto rappresentante di un genere tutt’ora nel fiore delle sue possibilità creative tramite la nuda e cruda esplorazione del mezzo cinematografico in relazione col corpo agonizzante dell’umano (seppure venga spesso denunciata un eccessivo esibizionismo avulso dall’effettivo contenuto del film).
Capeggiato da Yorgos, il Nuovo Cinema Greco riserva perle di questo calibro, spaziando dallo sconosciuto Makridis alla giovane e frizzante Athina Tsangari, collaboratrice assidua di Lanthimos che ha dato alla luce delle opere straordinariamente potenti e sociali. Vivamente consigliata è la visione dei suoi visionari ‘’Attemberg’’ e ‘’Chevalier’’: il primo, forgiandosi sulla rappresentazione di un’amicizia off topic sfoggia un approccio esistenzialista alle eventualità della vita; il secondo versa un centellino di ironia mirata sul maschilismo di cui anche i suddetti‘’maschi’’sono vittime.
Della stessa famiglia ricordiamo anche il più famoso (ma mal riuscito) ‘’Miss Violence’’ di Alexandros Avranas che si è portato a casa un nastro d’argento nel 2013 a parer mio piuttosto immeritato.
Un gruppo solido e celebrato (ma anche messo in discussione) dalla critica internazionale, quello dei registi dell’isola, eredi del Maestro indiscusso Theo Angelopoulos.
Tuttavia, il taglio cerebrale dei loro lavori è diametralmente opposta a quello poetico di Angelopoulos, e ne elude un confronto che sarebbe, comunque, impossibile da reggere a priori. Nonostante ciò, la visione di film come ‘’Doghthooh’’ è essenziale per sviscerare le verità di un io incerto, inglobato in un discutibile sistema di valori che rischia di mettere a repentaglio l’identità individuale del singolo e l’indagine sulla propria dimensione nel mondo.
Avvertiti i deboli di cuore (e di stomaco), non resta che munirsi di una tavola da surf per cavalcare l’onda di un cinema che è sulla rotta del successo, direttamente dal Mar Egeo.
 

 

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