DE MONARCHIA: IL CORAGGIO DI UNA SCELTA LAICA. «L’umana generatione, quando è massime libera, hottimamente vive»

di Ermanno Testa

 

Il De Monarchia o Monarchia, saggio politico scritto da Dante nella maturità, è stato generalmente considerato dalla critica storico-politica e letteraria opera di scarso interesse culturale. Diversi fattori hanno contribuito a tale giudizio. Intanto il riconoscimento, pressoché immediato, dell’immenso valore letterario, linguistico, storico, identitario della Comedia, e il suo carattere ‘popolare’ – basti pensare alle affollate pubbliche letture dell’opera promosse da Boccaccio – che, per contrasto, hanno da subito indirizzato la critica a una de-classificazione di tutto il resto della produzione dantesca, pur significativa per tanti aspetti, al capitolo “opere minori”. Di queste, nella tradizione letteraria, si citano soprattutto quelle che in qualche modo anticipano lo stile poetico e l’afflato morale dell’opera maggiore, in primis, insieme alle Rime, la Vita nova, un prosimetro e, in misura ben minore, il Convivio, dello stesso genere letterario, ma dal più marcato contenuto scientifico, filosofico e dottrinale. Quanto alle opere latine, le tredici Epistole, le due Egloghe in esametri e i due saggi, De vulgari eloquentia e Monarchia, la tradizione italianistica interessata al tema della ‘nuova’ lingua e al rapporto tra lingua naturale e lingua convenzionale, concentra solitamente la sua attenzione sul primo lavoro, anch’esso peraltro non portato a termine. Ciò che rende Monarchia, sola opera latina completa, ostica alla critica storica e letteraria è il suo impianto compositivo, culturale e argomentativo, decisamente ispirato ai contenuti e ai canoni formali della saggistica medievale, a tal punto da considerarla già superata al tempo del suo stesso autore. Agli inizi del XIV secolo infatti il potere imperiale appariva ormai del tutto esaurito – troppo scarsa credibilità riscuotevano l’incoronazione (1307) e la successiva discesa in Italia (1312-13) di Arrigo VII – e il potere papale mostrava tutta la sua debolezza sotto il peso politico-militare del re di Francia: risale a qualche anno dopo l’inizio della cattività Avignonese (1309). Eppure il saggio a suo tempo non passò inosservato se a pochi anni dalla sua pubblicazione fu messo al rogo (1329) con l’accusa di eresia da quel Bertrando Del Poggetto, potente legato pontificio per le questioni italiche durante il periodo avignonese; e se in seguito, in piena Controriforma (1559), il libro fu inserito nel primo ‘Indice dei libri proibiti’, con una condanna confermata fino alla fine del XIX secolo. Solo nel 1921 il De Monarchia, insieme a tutte le opere di Dante, verrà ‘riabilitato’ con una enciclica di Benedetto XV.

Si impone perciò la domanda: perché, a differenza delle altre opere minori coeve alla stesura della Comedia, e non portate a termine forse anche per la concomitanza con gli argomenti contenuti nel poema, l’autore sente il bisogno di scrivere un intero saggio di argomento politico nella lingua illustre dell’intellighenzia europea? Sente cioè il bisogno di una ‘comunicazione universale’ di alto profilo, secondo i canoni storici e stilistici del tempo? Nella Comedia, al riguardo, non mancano di certo racconti, descrizioni, personaggi, giudizi, morali e politici, rivelatori del pensiero politico dell’autore, sempre decisamente schierato. Dante evidentemente considera troppo importante in quel momento il tema del rapporto tra potere civile e potere religioso per non essere trattato, nella forma più aulica e con il massimo rigore dottrinario-disputazionale, con un giudizio inappellabile. È su tale intendimento che vanno ricercati, per una corretta interpretazione, il significato e il valore culturale e civile del De Monarchia. Dante prende parte attivamente alla politica nella sua città, dopo aver affrontato di persona anche i rischi della guerra: inviato per conto di Firenze in missione diplomatica presso il papa, ne conosce da vicino l’ostilità e le mire espansionistiche. Sorpreso durante la missione a Roma dall’improvviso mutamento politico avvenuto nella sua città; a seguito della condanna a morte inflittagli dai suoi concittadini, è costretto all’esilio. Da stimato poeta e intellettuale, viene accolto e ospitato presso varie Signorie certamente attente se non coinvolte direttamente negli avvenimenti politici e militari in corso nella Penisola: durante l’esilio Dante, stimato consigliere, oltre che poeta di corte, sicuramente avrà preso parte alle discussioni e ai confronti con alcuni tra i principali protagonisti degli avvenimenti politici e militari in corso nella Penisola. L’autorevolezza intellettuale e la competenza politica per diretta esperienza e per la condizione di osservatore privilegiato presso le corti, ne fanno un’autorità in materia, un profondo conoscitore della politica, soprattutto un osservatore consapevole di quanta instabilità derivi dalla costante ingerenza del papa nelle vicende politiche. È inoltre da ritenere che ai tempi di Dante fosse ancora vivo il ricordo dell’asperrimo conflitto scoppiato, appena una generazione prima, tra il papa e l’imperatore Federico II impegnato a costituire nell’Italia centromeridionale il primo Stato moderno in Europa. L’eco di quello scontro, della scomunica e della condanna dell’imperatore quale Anticristo e del fallimento di quell’importante esperimento politico probabilmente non si è ancora spenta. Nel frattempo, a fronte di un impero ormai privo di potere, si sono andate consolidando, in Italia e in Europa, nuove realtà politiche territoriali e qualche grande monarchia, nei confronti delle quali si perpetuano le ingerenze e i tentativi di supremazia del Papato. Dante certo non apprezza la frantumazione e il particolarismo politico in atto soprattutto in Italia, e il richiamo al governo dell’imperatore, cioè di uno solo, a fronte di una realtà politica debole e composita, ormai irreversibile, appare piuttosto un pressante invito morale alla concordia in nome del bene comune. Né ignora quanto proprio l’ingerenza della chiesa nei confronti del potere civile, soprattutto in Italia, sia fonte di continui litigi e scontri (guelfi e ghibellini, bianchi e neri) nelle tante realtà territoriali. Sotto questo profilo per l’esule fiorentino un principio va affermato con forza: il potere ecclesiastico non può prevalere sul potere civile e politico! Per Dante, convinto credente, il papa deve occuparsi di ben altro, cioè della felicità della vita eterna. Per dare solennità allo scritto egli si avvale di quella che Erich Auerbach, suo grande studioso, chiama l’interpretazione figurale, base generale della interpretazione medievale della storia. Il concetto di figura – secondo Auerbach – indica un elemento reale e storico che nello stesso tempo non annulla il suo significato più profondo di espressione del disegno divino, conciliando l’aspetto allegorico con quello realistico. Il ragionamento dell’autore esula dunque da ogni concezione storica evolutiva.

Similmente ai personaggi della Comedia (Catone, Stazio, Beatrice…) che nel linguaggio figurale di Dante più che allegorie sono figure reali nel loro adempimento divino, nel Monarchia l’ufficio dell’imperatore, necessario al benessere del mondo, nella disposizione divina non è che l’adempimento della realtà figurale dell’impero romano. Si tratta di una spiegazione, tipicamente medievale, ad usum dei dotti contemporanei, ma ciò che conta è il principio che l’autore vuole affermare: la funzione/necessità di un potere politico per conseguire il bene comune (libro I). L’ordine della natura delle cose si conserva con il diritto e il potere civile è garanzia di diritto; i romani con la loro azione politica hanno mirato al bene dello stato, cioè hanno mirato al diritto; il popolo romano perciò, a dispetto di Ciro, Serse, Alessandro, è giunto primo nell’egemonia del mondo attribuendosi l’universalità dell’impero (libro II). L’autorità della Chiesa è separata da quella dell’impero, perché l’impero è precedente ad essa e non soggetto ad alcuna dipendenza di virtù; il fondamento della Chiesa è Cristo, quello dell’Impero è il diritto umano. E poiché ogni giurisdizione esiste prima del suo giudice, e l’impero è una giurisdizione, dunque anteriore al suo giudice, ne consegue che Costantino ricevendo da tale giurisdizione la sua stessa esistenza, cioè il suo potere di imperatore, non poteva trasferirla ad altri; e la Chiesa, nata povera, non aveva diritto di accettare dall’imperatore Costantino un dono così significativo. In sostanza il potere politico non aveva il diritto di donare parte di tale potere alla Chiesa né questa il diritto di accettarlo. I due poteri sono e debbono restare separati. Le due guide, il papa per la vita eterna e l’imperatore per la vita terrena, debbono rimanere separate. Anche se è bene che il potere civile rispetti la Chiesa per la sua nobile funzione: unica conclusiva concessione ‘diplomatica’ dell’autore al potere ecclesiastico (libro III). Certo, nei 41 capitoli di un trattato estremamente analitico mancano gli stilemi di un ragionamento storico moderno di tipo evolutivo che del resto non c’è neanche nella Comedia: ma questo è il pensiero storico medievale, un pensiero che crede nella totalità, anche temporale, del disegno divino! Tanto maggiore rilievo nel Monarchia assume l’intendimento solenne, rigorosamente laico, di Dante di sottrarre la disputa tra Stato e Chiesa alla controversia politica spicciola, per affermare come principio universale, valido in assoluto, quello della separazione tra Chiesa e Stato. E lo fa in latino, un linguaggio universale, che è in primo luogo il linguaggio della chiesa, con lucida chiarezza, equilibrio compositivo, complessità sintattica, simmetria. Un ragionamento destinato a pesare che, nella sostanza, si potrebbe definire moderno. Questo spiega perché, con decisione tipicamente medievale, il Monarchia sia stato messo al rogo dal papato, nel tentativo per secoli di impedirne la lettura.

 

Ermanno Testa, tra i fondatori del Cidi negli anni ’70, ha fatto parte per decenni della struttura nazionale dell’associazione ricoprendo vari incarichi. Tra l’altro ha diretto per diciassette anni la rivista mensile “Insegnare”, ha diretto la collana “Cultura e Didattica” di Franco Angeli, ha curato numerose pubblicazioni, prodotto documenti sulla scuola, partecipato a commissioni ministeriali, promosso e organizzato diversi convegni nazionali e seminari di studio

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