di Carmela Moretti
L’ultimo film di Pupi Avati è l’atto d’amore di un uomo innamorato.
Innamorato del divin poeta è senz’altro il regista bolognese. Come egli stesso racconta, è rimasto saldamente avvinghiato per vent’anni alla volontà di trovare una personale chiave di lettura dell’esperienza dantesca, offrendoci in effetti un’opera appassionata.
Ancor più innamorato – anzi, intimamente devoto – appare il vero protagonista della storia, Giovanni Boccaccio. È attraverso il suo sguardo e i suoi racconti che vediamo un giovanissimo Dante, interpretato da Alessandro Sperduti, prendere forma.
Difatti, il Sommo poeta assume contorni sfumati per tutta la storia; egli sembra restare personaggio, senza mai farsi “persona”. Il ruolo centrale è affidato a Boccaccio, che fu grande conoscitore di Dante e suo primo sostenitore. È interpretato in maniera magistrale da Sergio Castellitto.
L’autore del Decameron deve compiere un viaggio da Firenze a Ravenna per incontrare suor Beatrice, la figlia di Dante, e darle un risarcimento economico e morale a nome della città che esiliò suo padre. Finisce per essere, con qualche punta di esagerazione, il pellegrinaggio di un fervente fedele verso il momento estatico finale.
Si dipana, quindi, la “commedia umana” di Dante, mentre la sua grandiosa opera resta sullo sfondo, quasi appena accennata. Lo vediamo prima innamorato di Beatrice (l’attrice è Carlotta Gamba), poi prendere parte alla battaglia di Campaldino, in seguito divenire priore e finire col “tradire” l’amico di una vita in nome di un ideale. Poi, arrivano l’esilio e il suo peregrinare di corte in corte, sempre nella vana illusione, che mai lo abbandonerà, di venire riammesso nella sua città.
Il “Dante” di Pupi Avati è un’operazione intelligente, poiché il regista riesce a non scadere nella retorica e al tempo stesso a evitare un eccesso di didascalismo. Il suo non vuole essere un ossequio al più grande poeta italiano di sempre né ci appare una ricostruzione filologica della sua vita. È piuttosto un addentrarsi in maniera personale nei meandri di un’anima che ha saputo amare, rischiare, prendere una posizione nella storia, nel tentativo di non restarne semplice spettatore.
Bene ha fatto, perciò, il regista a rimarcare la propria cifra stilistica. Dominano atmosfere cupe e ambientazioni anguste; l’elemento gotico, accentuato in alcune scene e che finisce per investire persino l’angelica Beatrice, è il sale della “pellicola” e la rende un’opera d’autore ben riuscita.
Se non bastasse, altri due motivi per vedere il film.
Uno. Ci offre l’ultima (piccola) interpretazione dell’attore Gianni Cavina, scomparso a marzo scorso. Veste i panni del notaio Pietro Giardino in punto di morte, ruolo che ha voluto rivestire nonostante la malattia. Che grande commozione!
Due. Appare in tutta la sua magnificenza il mosaico absidale della basilica di Sant’Apollinare in Classe, a Ravenna: un grande disco gemmato, che contiene un cielo trapuntato di 99 stelle d’oro e una croce gemmata, al cui centro si trova il viso di Cristo. Si racconta che tanta bellezza abbia estasiato Dante, ispirando i versi del canto XIV del Paradiso:
Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo.