di Carmela Moretti
Oggi ci sono le cliniche specializzate, i consultori, la chirurgia mininvasiva, l’anticoncezionale, la consapevolezza e la prevenzione. La capacità di guardare alla donna nella sua complessità, anche sessuale, è stata una lenta, ma grande conquista di civiltà, di cui tutte noi oggi possiamo beneficiare. Non era così negli anni in cui operò il ginecologo verbanese Alessandro Cuzzi, uomo d’intelligenza vivace, che nella seconda metà dell’800 si ritrovò a compiere un percorso professionale straordinario e a lasciare una traccia fondamentale nel campo della medicina.
C’è stato un tempo in cui molte madri morivano di parto, lasciando orfani i loro bambini. Un tempo in cui i cesarei erano una condanna a morte sicura, l’ammissione delle donne in ospedale avveniva a seconda dell’estrazione sociale e del reddito, le gravidanze illegittime per abusi erano in numero considerevole. La cura delle gestanti e dei loro bambini era affidata quasi esclusivamente alle levatrici, che da millenni facevano il meglio che potevano. È in questo contesto che si inserisce il contributo di Alessandro Cuzzi per la nascita della ginecologia così come la intendiamo oggi: fino a quel momento era stata strettamente legata all’ostetricia, ma nell’800 progressivamente cominciò a formare un ramo indipendente e divenne lo studio dell’anatomia e delle malattie genitali femminili.
Alessandro Cuzzi nacque a Suna (l’odierna Verbania) nel 1849, figlio di un negoziante e imprenditore della zona. Si laureò in medicina all’Università di Torino e fu assistente prima nelle cliniche ostetriche universitarie di Parma e di Torino, poi nella scuola ostetrica di Milano, dove rimase affascinato dalla vivacità e dagli spunti che la città lombarda gli offriva. Qualche anno dopo ottenne la cattedra di ostetricia a Torino, ma volle tornare a Milano. A soli trent’anni, venne nominato professore all’università di Modena.
Nel 1883, a 34 anni e con una carriera invidiabile alle spalle, arrivò a Pavia, centro all’avanguardia in cui soltanto sette anni prima si era effettuato il primo taglio cesareo su donna “vivente” in Italia. Ed è a questo periodo che risalgono gli interventi più rilevanti di Cuzzi: fondò la prima clinica ginecologica d’Italia, fece approvare il primo e ufficiale Regolamento per l’assistenza al parto che riguardava le ostetriche, avviò un’intensa attività di scrittura di trattati medici, fondò il Giornale per le levatrici e lo diresse per un triennio. Ma soprattutto, per rendere più sicuro ed efficace il servizio ostetrico a domicilio, Cuzzi fondò la Guardia Ostetrica, un istituto che prestava un’opera gratuita alle donne di ogni estrazione sociale e di fronte a casi di assoluta miseria, si occupava anche di fare del bene, elargendo cibo, medicine, indumenti per neonati.
Tutto questo, mentre il corpo pativa tremende sofferenze a causa di una malattia contratta proprio sul lavoro: nel 1879, a Milano, si era punto il pollice con il bisturi durante l’autopsia di un feto sifilitico e ne venne contagiato. Nel giro di sedici anni, le sue condizioni peggiorarono notevolmente, divenne sempre più stanco, pallido e smunto. Ciononostante, Cuzzi non smise di dedicarsi con dedizione alla medicina e all’insegnamento. Continuò a farsi condurre nell’istituto pavese su una sedia a rotelle, a impartire le sue lezioni, a scrivere e a pubblicare con ancora più intensità fino all’ultimo giorno della sua vita. La sifilide lo spense nel 1895.
Il suo busto – segni distintivi, occhi vispi e due baffi che incorniciano il labbro superiore – se ne sta quasi come una “cosa dimenticata” sul lungolago di Verbania, zona Suna, dove fu eretto dai suoi concittadini nel 1920. Un altro è nell’anfiteatro della clinica di Pavia dal 1899.
Sono la testimonianza più viva, insieme ai suoi scritti, di una vita spesa per la medicina, contribuendo a quel processo che ha portato all’attuale e fondamentale consapevolezza del benessere delle donne.