…COME SA DI SALE / LO PANE ALTRUI: DANTE E IL CIBO

di Trifone Gargano

[tavola realizzata da Carlo Volsa, laboratorio didattico aperto, in occasione del Dantedì 2021, liceo “don L. Milani, di Acquaviva delle Fonti (Ba)]

Bene ha fatto la Algida, per la linea Magnum, a celebrare i 700 anni della morte di Dante Alighieri (1321-2021), con la proposta di tre edizioni limitate di gelati dell’altro mondo, Inferno, Purgatorio e Paradiso:

L’iniziativa della Algida è forse l’ultima, in ordine di tempo, che sta a testimoniare la presenza attiva, nella nostra vita quotidiana, di un classico come Dante Alighieri, autenticamente pop. Tale presenza sconfina dai brand alimentari, ai fumetti, dalle canzoni pop e rock, ai romanzi, dal teatro, al cinema, dai videogiochi, ai giochi di ruolo, ecc., come sostengo da anni. La Divina Commedia è, per davvero, lievito madre, lievito, cioè, che non smette mai di fermentare. Per utilizzare le parole di Dante stesso, direi che il suo poema è come quella «poca favilla» dalla quale «gran fiamma seconda». Una scintilla che incendia i nostri cuori e le nostre menti.

Prima di suggerire un percorso di letture legate al cibo, con versi individuati all’interno delle tre cantiche dantesche, preciso che, in tutta Italia, esistono anche luoghi della ristorazione direttamente ispirati alla (e dalla) Divina Commedia, e non solo nella loro intitolazione, come, per esempio, «La retta via», o «Ciacco», o «Canto VI», ma anche, direi, soprattutto, nell’articolazione del menu di sala, con l’offerta di pietanze e di succulenti specialità.

Nell’intera Divina Commedia, il cibo (con valenza reale, ma anche magico-simbolica) è molto presente, sia attraverso le immagini del bere e del mangiare, sia come fame e sete di conoscenza. Ecco, qui di seguito, due esempi. Il cibo nella sua forma realistica:

If, VI, 52-7 [parla Ciacco]

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.

[Voi concittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa della gola,
come vedi, mi macero sotto la pioggia.

E io, anima infelice, non sono sola,
perché tutte queste altre scontano una simile pena
per una simile colpa». E non pronunciò più parola.]

Il cibo nella sua forma magico-simbolica:

Pd, V, 37-42 [parla Giustiniano]

convienti ancor sedere un poco a mensa,
però che ‘l cibo rigido c’hai preso,
richiede ancora aiuto a tua dispensa.

Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
sanza lo ritenere, avere inteso.

[ti conviene restare seduto ancora a mensa
perché il cibo complesso che hai preso
richiede ancora aiuto per la tua digestione.

Poni bene attenzione a quello che io ti espongo
e fissalo nella mente; perché non vi è vera conoscenza
se non si tiene nella memoria quello che si è appreso.]

Nella Commedia, sono presenti citazioni di piatti e pietanze: il pane senza sale di Firenze, le anguille del lago di Bolsena, la Vernaccia, il vino di cui era ghiotto papa Martino IV, gli alberi rovesciati e carichi di frutta dei golosi purgatoriali, ecc.

[l’incontro con Forese, tra i golosi del Purgatorio]

Com’è noto, all’immagine del banchetto, Dante aveva dedicato un’intera opera, il Convivio, o «banchetto di sapienza», scritto poco prima di avviare la stesura della Commedia. Opera anch’essa in lingua volgare, redatta, presumibilmente, negli anni tra il 1304 e il 1306 (o 1307), che furono i primi anni dell’esilio (i più turbolenti e tormentati), con l’intenzione di rivolgersi non più solo alla ristretta cerchia dei dotti, ma a un pubblico di lettori molto, molto più largo, grazie all’utilizzo proprio del volgare, come strumento espressivo, abbandonando il latino. Ecco alcuni passaggi testuali del Convivio, presi dal primo Trattato, con riferimenti al cibo, al pane e al banchetto:

7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo!

14. La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado.

16. […] la presente opera, la quale è Convivio nominata

Come si può ben leggere, al paragrafo 14, Dante struttura la materia dell’intero trattato attraverso la metafora del menu di sala, per un banchetto, per un convivio.

Traccio, adesso, una piccola costellazione di letture, all’interno della Divina Commedia, lungo i sentieri del gusto e del cibo. Avendo già citato Ciacco, e il canto VI dell’Inferno, quello dei golosi, inizierei con Farinata degli Uberti, che giganteggia nel canto X dell’Inferno:

Vedi là Farinata che s’è dritto (v. 32)

Si tratta, in realtà, di Manente degli Uberti, potentissimo capo ghibellino di Firenze (e dell’intera Toscana), detto Farinata per la sua debolezza di gola, accordata, appunto, alla “farinata”, una ghiottoneria della cucina tosco-ligure. Una specie di focaccia ottenuta con farina di ceci impastata con acqua, che viene stesa in una teglia larga e unta di olio, e che, quindi, presenta uno spessore basso. La cottura avviene in forno a legna, e produce una crosticina superiore dorata e croccante. Si tratta di un alimento povero, popolare, ottenuto con una ricetta piuttosto semplice. Dante colloca Farinata degli Uberti, con il quale avrà un violento e fiero battibecco, tra gli eretici del VI cerchio infernale, all’interno della città di Dite. Proprio il goloso Ciacco gli aveva annunciato, nel canto VI, l’incontro con Farinata, e con altri, un po’ più oltre, verso il fondo dell’Inferno, «tra l’anime più nere» (If, VI, 85).

«Focaccia» è il soprannome di un personaggio minore dell’Inferno dantesco, tal Vanni de’ Cancellieri Bianchi, di Pistoia, guelfo di parte bianca, uomo violento e autore di molti crimini. Dante lo colloca nella Caina, in Inferno XXXII, 63, tra i traditori dei parenti (per aver ucciso, tra gli altri, anche un suo cugino), nella prima zona del IX cerchio infernale.

Ho già citato papa Martino IV, che Dante colloca tra i golosi del Purgatorio (ai canti XXII, XXIII e XXIV), degnandolo di un esplicito riferimento, con la menzione che ne fa Forese Donati, l’amico di gioventù, con il quale, ora, nella cornice purgatoriale dei golosi, Dante si intrattiene, dopo averlo riconosciuto, nonostante il dimagrimento:

Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta
di nominar ciascun, da ch’è sì munta
nostra sembianza via per la dieta.

Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che l’altre trapunta

ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
l’anguille di Bolsena e la vernaccia».

Molti altri mi nomò ad uno ad uno; (Pg, XXIV, 16-25)

[Così rispose, prima; poi: «Qui, è necessario
Indicare, ciascuno, col proprio nome, dal momento che
il nostro aspetto è così mutato, per via del digiuno

Questi», e lo indicò con il dito, «è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia,
dietro di lui, più screpolata delle altre,

fu sposo della Santa Chiesa;
venne da Tours, e purga con il digiuno,
le anguille del lago di Bolsena e la vernaccia».

Mi nominò molti altri ad uno ad uno;]

La vernaccia di San Gimignano è un vino dal colore giallo paglierino, con riflessi dorati e un profumo delicato. Vino sapido, del quale, appunto, era ghiotto papa Martino IV (pontefice romano dal 1281 al 1285). Fu Giovanni Villani, nella sua Cronica, a fornirci un ritratto di questo papa come di un uomo molto goloso. Dante, dunque, lo collocherà nella VI cornice del Purgatorio, tra i golosi.

Sempre in questa cornice purgatoriale, Dante fa riferimento all’«acqua», in quanto simbolo di morigeratezza e di temperanza, citando consuetudini delle antiche e virtuose donne romane:

E le Romane antiche, per lor bere,
contente furon d’acqua […] (Pg, XXII, 145-46)

In verità, occorre precisare, che alle antiche donne romane era vietato bere vino, per evitare che, bevendone, si abbandonassero a ogni sorta di dissolutezza.

In tre canti del Paradiso, giganteggia la figura di Cacciaguida, il trisavolo di Dante, morto, molto probabilmente, durante la seconda crociata, al seguito dell’imperatore Corrado III, e quindi collocato da Dante nel cielo di Marte, tra gli spiriti militanti per la fede. Figura (quasi) leggendaria, eroe e cantore dei valori del tempo antico, cioè di quella Firenze che viveva felice e in armonia tutta «dentro da la cerchia antica» (Pd, XV, 97). Cacciaguida, nel canto XVII, profetizza a Dante l’esilio, e gli consegna la missione di scrivere tutto ciò che ha visto, lungo il viaggio ultraterreno:

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna. (Pd, XVII, 127-29)

[Ma, nonostante questo, rimossa ogni menzogna,
rivela tutto ciò che hai visto;
e lascia pure che chi ha la rogna, si gratti]

Nelle parole dell’esilio, Cacciaguida farà riferimento al pane che «sa di sale», cioè a quel pane che Dante, una volta cacciato e bandito da Firenze, dovrà assaggiare, lontano dalla sua città, come atto caritatevole da parte di chi, di volta in volta, lo ospiterà e lo proteggerà:

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. (Pd, XVII, 58-60)

[Tu proverai quanto sia amaro
il pane degli altri, e quanto sia cammino faticoso
scendere e salire lungo le scale altrui]

Dopo tanto cibo, sia pur virtuale, e non reale, in conclusione, temendo che qualche famelico lettore possa sentirsi, come dire, appesantito, e che avvertisse qualche difficoltà di digestione, suggerirei il ricorso a un rimedio dantesco. Nel 1921, infatti, la Magnesia San Pellegrino mise in vendita una curiosa confezione dell’omonimo (e celeberrimo) purgante, recante stampati, sulla tradizionale scatoletta di latta contenente il lassativo, l’immagine di Beatrice, e un motto (con funzione di réclame) che, in realtà, era la citazione di un verso tratto dal canto II dell’Inferno, e cioè:

I’ son Beatrice che ti faccio andare

La trovata pubblicitaria suscitò la divertita reazione dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione, il filosofo napoletano Benedetto Croce.

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