BELLO SENZ’ANIMA: il disturbo narcisistico della personalità dei cineasti italiani

di Francesca R. Recchia Luciani – Filosofa (Università di Bari “Aldo Moro”)

Il cinema italiano non è morto, non ancora, ma è in uno stadio terminale assai prossimo al coma, magari a tratti vigile, apparentemente vitale, ma in realtà i suoi film più celebrati dai festival internazionali (da ultimo Cannes, che ne ha mostrati addirittura quattro: Youth di Paolo Sorrentino, Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, Mia madre di Nanni Moretti, Louisiana di Roberto Minervini) sembrano intonare un paradossale canto del cigno, seppure travestito da elegante virtuosismo canoro. Il suo encefalogramma non è piatto, anzi è un cinema che dà corposi (e dispendiosi) segni di vita, ma il suo cuore ha ormai smesso di battere, privo com’è, nella sostanza, di energia propulsiva, di immaginazione, di inventiva, di pathos.

Con buona pace di chi si è lamentato dell’assenza di riconoscimenti nella competizione francese, non si capisce quale tra questi film e soprattutto perché avrebbe dovuto ottenere premi. Questa cinematografia è lo specchio di un paese culturalmente finito, che nasconde sotto il tappeto luccicante mostrato al pubblico internazionale un deserto polveroso e tossico, un’assenza d’idee e di visione; l’arte di una nazione alla quale non resta che un grande futuro alle spalle.

La sua caratteristica principale, infatti, è la predilezione per un espressionismo sontuoso, patinato, elegante che racconta tuttavia il puro nulla (nel caso di Garrone), il vuoto narrativo sceneggiato con infinita supponenza (come fa Sorrentino), l’ennesima crisi di mezz’età (dell’egocentrico Nanni Moretti) oppure un documentaristico cinema-verità che moltiplica infinite volte l’effetto déjà vu (declinato da Minervini in americano). Si obietterà che questi film a molti sono apparsi persino dei capolavori, ma ciò che più sconcerta è l’insopprimibile sensazione di ripiegamento solipsistico che essi producono, la bassa o scarsa capacità di comunicare contenuti di senso poco più che soggettivi. Fenomeno che assume ora le forme collaudate e monotone del narcisismo morettiano, ora le sembianze della vacua metafora espressa nel manierismo fantastico scollegato dalla realtà come nel caso di Garrone, ora nell’abbandono estetico-estatico al puro intellettualismo sorrentiniano, da ultimo ricalcando insistentemente orme neo-neorealiste come nel caso del verismo spinto di Minervini.

Il cinema italiano appare oggi più incline alla nostalgia passatista o all’imitazione esotica che all’ideazione e alla sperimentazione, e la sua principale attitudine attuale sembra quella di confondere l’autorialità con l’autobiografismo e l’autoreferenzialità, ma soprattutto – cosa ben più grave – l’estetica con l’etica, l’esaltazione della forma a detrimento del contenuto, insomma, una grande bellezza coniugata con un’infinita vuotezza. Non sa parlare più l’unico vero esperanto dell’arte, quella lingua comprensibile a tutti, a qualsiasi latitudine e in ogni angolo del mondo, che la rende diversa dalla storia, determinandone, secondo Aristotele, la missione poetica: cogliere l’universale, immaginare, descrivere e raccontare mondi ed esistenze in cui chiunque possa trovare anche tracce di sé. Fa eccezione in tal senso l’egolatria di Nanni Moretti, il quale decidendo di raccontare la malattia e la morte della madre (la madre di tutte le morti) intraprende soggettivamente un’elaborazione del lutto che intercetta fatalmente le sofferenze e i lutti altrui.

La critica ha rilevato a proposito di Youth di Sorrentino (il più discusso, anche perché il più gravido di aspettative) che è un film senza anima, ma la diagnosi può facilmente essere estesa alla gran parte dell’attuale produzione cinematografica nazionale. Tale scomparsa al contempo descrive un’altrettanto funesta caduta dell’aura, di ogni vestigia di sacralità, unicità, irripetibilità collegata all’arte e alla produzione creativa. In tal senso, Youth assomma in sé, rendendoli vistosi e ridondanti, tutti i peggiori difetti dell’italica produzione cinematografica.

Film verboso e aforismatico, pur facendo leva su un immaginario sfarzosamente policromo giocato sulla rappresentazione dell’indolenza e del lusso, non rinuncia a intasare di proposizioni ampollose e categoriche le conversazioni dei suoi personaggi, in un eccesso di sovrapposizioni stilistiche e di prosopopea che lungi dall’appagarne l’occhio e l’intelletto, annoia il pubblico che intuisce lo sporco gioco seduttivo in cui lo si vuole intrappolare. L’opera sorrentiniana si rivela allora per quello che è, un’altra espressione, più sofisticata e obliqua rispetto al morettiano Mia madre, di narcisismo patologico eretto (onanisticamente) a forma d’arte. Per di più costruito su una sceneggiatura che sfoggia a profusione ardite metafore e affermazioni apodittiche, le quali tuttavia non riescono a farlo somigliare né alla superba opera letteraria né al solenne capolavoro metafisico cui il film palesemente ambisce, anzi ottenendo talvolta l’effetto opposto, vale a dire di far proferire dogmaticamente agli attori frasi pregne di verità assolute che finiscono per somigliare a quelle riportate nei cartigli dei cioccolatini: “Le emozioni, lungi dall’essere sopravvalutate, sono tutto quello che abbiamo”.

Accecato dal successo, Sorrentino, con sprezzo del pericolo e sorvolando sul necessario rigore dell’impresa, tenta in questo film di darsi alla filosofia, assurta a sport nazionale praticato con discreto successo di pubblico da ottuagenari giornalisti mai domi nella loro tracotanza intellettualistica, al punto che viene da chiedersi se l’instancabile pressione lobbistico-editoriale che pompa mediaticamente personaggi come Michela Marzano, Roberto Saviano, Massimo Recalcati, Alessandro Baricco non sia in fondo, per certi padri fondatori, solo una necessità di autopromozione: nell’autunno desolato del nostro scontento culturale più facile così ergersi a maestri.

Il nostro cinema ormai balla in perfetta solitudine, se non altro perché l’individualismo sfrenato di chi lo fa, proprio come accade in molti altri ambiti della produzione artistica e culturale, non concede cedimenti al mondo circostante, nessuna forma di empatia, né interesse sociale. Gli autori raccontano nelle loro opere solo se stessi, unici soggetti a cui sono realmente e sinceramente interessati.

L’antidoto esclusivo a questa incessante e forsennata corsa al ribasso della produzione filmica (e culturale) nazionale è, ancora, un’assidua frequentazione delle sale cinematografiche (per lo più periferiche), dove può capitare di vedere il film svedese Forza maggiore di Ruben Östlund, che con una regia sospesa tra ghiacciate atmosfere nordiche che sembrano abitare, sino ad invadere, tanto la natura quanto gli esseri umani riesce a descrivere lo smarrimento esistenziale contemporaneo senza alcuna autoindulgenza né pseudo-intellettualismi, imprimendosi coi suoi grigi ottundenti e coi suoi colori smorzati nella mente e nel cuore dello spettatore nel quale s’insedia scavando per giorni come un tarlo.

Oppure l’ucraino The Tribe di Myroslav Slaboshpytskkiy, film potentissimo, interamente girato nella lingua dei segni, basato su un soggetto contundente che rappresenta una comunità di sordomuti attraversata da una violenza totale e senza redenzione. Immagini algide e rigorose che raccontano senza proferir parola una storia agghiacciante e assordante, un esperimento che illustra cosa può essere oggi il cinema, la settima arte, quando non cede ai demoni dell’intrattenimento e della superficialità.

O, ancora, d’incrociare Eisenstein in Messico, fantasmagorico, scoppiettante film del maestro Peter Greenaway che ti inonda con potenza visionaria e uso sapiente e sfrenato della tecnologia di emozioni vere, palpitanti che restituiscono in un sol colpo al cinema quel pathos, quell’anima e quell’aura che sul suolo patrio non possiamo che rimpiangere. Insomma, qui siamo tutti morti ma, coraggio, c’è vita su Marte.

 

 

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