BARI INTERNATIONAL FILM FESTIVAL – 23 agosto 2020

di Francesco Monteleone

Sotto un cielo straordinariamente caldo non gira più un cittadino maturo che non invochi l’arrivo dell’autunno. È vero che si desidera sempre ciò che non si ha, ma al suolo pugliese la temperatura è troppo calda; ormai non si mangia più, non si dorme più, il medico ti ordina di non bere alcolici e di darti all’acqua di rubinetto, quindi l’unica cosa che conviene fare è andare al Bifest a distrarsi con la cultura.

La sorpresa domenicale è l’ottimo giornalista Enrico Magrelli che dialoga con i fratelli Avati (il produttore e il regista) sul film in circolazione e sul nuovo che stanno girando con Stefania Sandrelli e Renato Pozzetto, a Ferrara.
“Il signor diavolo”, definito “horror d’autore gotico-padano” è stato un film nostalgico ambientato nel 1952 (prima dell’epopea del ‘Carosello) quando vivevamo, a nord e al sud, in una civiltà di contadini creduloni ed eccessivamente devoti, governata dal parroco, dal maresciallo dei Carabinieri, dal sindaco e dai maestri di scuola che ci davano bacchettate dolorosissime.
Pupi, con un velo di mestizia ha raccontato al pubblico dell’Arena Prefettura: “sono un cristiano – cattolico, credente e praticante. Quando ero bambino i genitori ci dicevano che dovevamo fare ogni giorno una buona azione e la sera era obbligatorio l’esame di coscienza. Oggi nessuno parla più del demonio, simbolo del male in eterna lotta con il bene. I preti, nelle omelie della domenica, non citano più i diavoli. La nostra cultura è diventata autoassolutoria.”
La professione di fede del regista è toccante; siamo felici di aver avuto le sue stesse divinità domestiche e sentiamo di aver ragione quando consumiamo la voce per convincere i soloni della politica che bisognerebbe insegnare la filosofia già dalle scuole elementari.
Altrettanto divertente è il dissepolto ricordo della nascita dell’amicizia tra Pupi Avati e Mario Monicelli, al quale è dedicato il Bifest 2020.

Monicelli fu uno dei pochissimi spettatori al mondo che vide, nel 1968, il primo film di Pupi “Balsamus, l’uomo di Satana”, proiettato e spiantato al Salone Margherita in 5 giorni; al grande Mario piacque e si racconta che egli lo difese in un ristorante di Roma dai denigratori, addirittura saltando sul tavolo.
Nel 1988 i due maestri, senza volerlo e senza saperlo, abitavano nello stesso palazzo. Pupi al secondo piano, Monicelli al settimo piano. Un giorno Monicelli ebbe un incidente e 17 fratture; contemporaneamente il Avati cadde nello stesso cunicolo infernale, con un infarto rovinoso. I due vennero prelevati dalle ambulanze che fecero la stessa strada. I due registi furono ricoverati nello stesso Ospedale e sistemati in due stanze, una di fronte all’altra. Monicelli ebbe tante visite illustri, Pupi annotò, con leggera invidia, tutti i loro nomi e ancora conserva quel foglietto. Le due mogli di Monicelli, per evitare di incontrarsi durante le visite, si nascosero a turno nella stanza di Pupi. Begli aneddoti. Solo la morte di don Mario (63 film in tutto) è riuscita a moltiplicare la lontananza fisica tra i due autori delle nostre migliori illusioni tricolori.

Volando da una giovinezza a un’altra, ecco alla corte di Felice Laudadio Lina Satri (classe 1950) incarnata in un provocante abito rosso che concentra la potenza del suo carattere che del corpo. L’artista napoletana fu immessa nell’industria cinematografica dalla Von Trotta che la prese come doppiatrice in “Ali di Piombo”. “Mi ritrovo nel mondo affatato del cinema, ma rimango attrice di teatro” dice l’artista di sè stessa; eppure, vedendo la sua filmografia, sembra che quel trampolino l’abbia lanciata lontano. “Mi sento in un mondo che non conosco, ma che mi attira, mi abbaglia…in fondo il cinema è una scia di luce.”
Finalmente un’attrice che, ricevendo un premio, dice pensieri originali, senza imporsi alla nostra pazienza con la dedica al marito, ai figli o peggio ancora alla sua stessa caparbietà.

Purtroppo la festa cinematografica è guastata da Russell Crowe con Il giorno sbagliato (Unhinged), regia di Derrick Borte (2020) proiettato sul maxischermo. Una lettura dell’Iliade fatta da Alessandro Del Piero sarebbe più sopportabile. (E pensare che per Russell abbiamo dovuto rinunciare alla visione della finale Champion tra Parigini e Tedeschi!).

La trama: un disoccupato con un macchinone si pianta ad un semaforo e non si muove nemmeno con il verde (esattamente come fanno i baresi che sempre superano il semaforo, non riuscendo più controllarlo). Una mamma in ritardo nell’accompagnare il figlio a scuola suona il clacson ripetutamente (deve essere anch’ella originaria di Bari); questo duplice comportamento maschile e femminile scatena una serie di episodi di incontrollabile crudeltà. Per 2 ore ne vanno di mezzo parenti, avvocati, cittadini comuni, autisti, donne e adolescenti, senza che mai uno sceriffo riesca ad arrivare in tempo per evitare tanto spargimento di sangue. Russel Crowe, ci hanno garantito stamattina gli esperti di marketing, farà incassi enormi appena andrà in sala, ma per noi socratici è meglio se si mette a coltivare il bambù. L’attore gladiatore è diventato un colosso di grasso, fa sempre la stessa stucchevole faccia di cattivo seriale che solamente un’intera serata passata nella cornetteria di via Quintino Sella potrebbe modificare in meglio.

Gli americani che ci arrivano attraverso il cinema pensano di trattare il puro e l’impuro con la forza, sono viandanti fuori della retta via della ragione, vogliono cambiare il mondo, non però il loro animo. Meglio se si affidano a sceneggiatori che hanno una formazione filosofica e a un presidente che voglia emulare Pericle o Pisistrato.

(foto ufficiali del Bifest)

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