BABBO NATALE, SAN NICOLA E IL LOCK DOWN

di Fjodor Montemurro

Sono appena terminate le festività ma siamo ancora immersi nella confusa isteria cromatica tra Regioni Rosse, Bianche, Gialle, Arancioni, e non è ancora chiaro se e in che modalità si darà seguito al regime di confinamento (volgarmente noto come lock-down). Curiosamente l’incertezza dei colori e il divieto di circolazione sono state già sperimentate dal famoso omino barbuto che distribuisce doni ai bambini la notte del 25 dicembre, a tutti noto come Babbo Natale.

Non è un mistero che il nostro Babbo Natale trovi il suo archetipo cristiano nella figura di San Nicola, il vescovo di Myra, antica città della Licia (attuale Demre in Turchia) vissuto a cavallo tra il II e III d. C. e che subito riscosse grandissima popolarità in Oriente. Sin dalla sua morte, avvenuta il 6 dicembre dell’anno 343, cominciarono a circolare diverse leggende sui miracoli e gli atti di evergesia del santo.

San Nicola- icona

Nelle numerose biografie che tramandano le sue nobilissime azioni si racconta che comparve ai marinai in mare durante una tempesta (praxis de nautis), moltiplicò il carico di una nave frumentaria (praxis de navibus frumentariis), salvò alcuni cittadini innocenti dalla decapitazione (praxis de stratelatis I) e poi alcuni generali (praxis de stratelatis II). Nicola era un santo simpatico, lontano dalla ieraticità di molte figure cristiane e non senza i difetti tipici di ogni uomo: si dice che, mosso da sdegno, avesse preso a schiaffi l’eretico Ario durante il Concilio di Nicea del 325! Il santo ottenne straordinaria popolarità nel mondo bizantino, e il suo culto fu poi letteralmente “trafugato” dai Baresi, che nel 1087 giunsero a Myra per sottrarre le sue spoglie dalla cripta e trasportarle a Bari. Il gesto fu poi ripetuto dieci anni dopo dai Veneziani, che completarono la profanazione della sua tomba per traslare al Lido di Venezia i resti non saccheggiati dai Baresi. Le reliquie baresi e veneziane, come hanno confermato gli esami del DNA, appartengono in effetti alla stessa persona, ma curiosamente un archeologo turco nel 2015 ha affermato che il vero San Nicola è ancora sepolto nella chiesa a Derme, e che gli italiani hanno rubato le spoglie di un altro prete. Nell’attesa che il mistero venga chiarito, San Nicola è ufficialmente entrato nella cultura dell’Occidente circa 1000 anni fa, ed è diventato protagonista anche della Festa del Natale, anche grazie al suo legame con i bambini. Come mai? Il collegamento con il Natale e i bambini ha origine da due leggende, di cui una è sicuramente nata per un fraintendimento delle fonti. Della prima ce ne dà una delicata seppur breve testimonianza il nostro caro Dante nella Divina Commedia: giunto nella quinta cornice del Purgatorio, dove stanno espiando i loro peccati gli avari e prodighi, il divin poeta ricorda come esempio di grande magnanimità proprio San Nicola (Purgatorio XX, 31-33):

Esso parlava ancor de la larghezza

che fece Niccolò a le pulcelle,

per condurre ad onor lor giovinezza.

Il riferimento è alla famosa Praxis de tribus filiabus, diffusa ampiamente nel Medioevo (e testimoniata anche dalla famosissima silloge agiografica nota come Legenda Aurea di Jacopo da Varazze), per cui San Nicola, in gioventù, decise di aiutare un uomo il quale, dovendo maritare le sue tre figlie e non avendo altri mezzi, si era deciso ad avviarle alla prostituzione. Il nostro vescovo, che non era nato povero, una notte lanciò, attraverso la finestra dell’abitazione dell’uomo, una palla di oro, perché la usasse come dote per la sua prima figlia. Il santo ripetè il gesto anche per le altre due figlie, senza mai palesare la sua identità: “non sappia la mano destra cosa fa la sinistra” era il suo motto. La beneficenza vera, infatti, non deve essere gridata o, come spesso avviene oggi, pubblicizzata. L’ultima sera però, quasi come un poliziotto che insegue qualcuno che corre per strada in pieno lock-down, l’uomo riuscì a fermare e riconoscere San Nicola, il quale gli intimò di non raccontare mai a nessuno dell’aiuto che gli aveva prestato.

Beato Angelico, san Nicola dona tre palle d’oro a tre fanciulle povere per farle maritare, 1437

Se questo racconto ha fatto di San Nicola l’emblema della generosità e della virtù rara del saper donare in maniera disinteressata, il legame con i bambini è quasi sicuramente il prodotto di una di quelle curiose stravaganze filologiche che nascono dalla errata traduzione di alcuni termini. In particolare, la parola innocenti, che designava i tre uomini salvati dal santo dalla pena della decapitazione (praxis de stratelatis I), fu interpretata come un termine equivalente a pueri, ossia i fanciulli (si ricordi che il cognome fiorentino Degli Innocenti fa riferimento ai bambini che erano abbandonati ed esposti davanti alle chiese, l’equivalente del napoletano Esposito). Questa confusione generò la leggenda che san Nicola avesse salvato tre bambini, e il racconto fu poi arricchito da particolari anche macabri: si narra che il santo si fermò in una osteria e scoprì che nel retrobottega erano conservati in salamoia tre fanciulli, che egli provvide subito a riportare in vita. Una variante di questa storia specifica che si trattava di giovani scolari che l’oste aveva macellato e mescolato ad altra carne salata. Ad ogni modo, questi racconti hanno contribuito a rendere san Nicola non solo il santo dei marinai e delle prostitute, ma anche degli scolari. Da qui ha anche origine la vecchia usanza dei seminaristi di eleggere un “vescovello” il 28 dicembre per la festa dei Santi Innocenti.

Tra le centinaia di località in cui oggi san Nicola è celebrato (in Italia, oltre a Bari, le feste in suo onore sono molte sentite in Friuli e in Trentino, dove si usa regalare le mele ai bambini, in ricordo delle palle d’oro) un posto particolare spetta ad Amsterdam, dove il santo è patrono della città. Accompagnato dal fedele compagno Zwarte Piet, letteralmente “Piero il Nero”, uno servo moresco proveniente dall’Etiopia che San Nicola conobbe, secondo le biografie, al mercato degli schiavi di Myra (il colore scuro della pelle, che sembra alludere anche al suo infilarsi nei camini per portare i regali, simboleggia il Saraceno che nel Nord Europa rappresentava il soldato dell’Inquisizione), San Nicola, chiamato qui Sinterklaas, viene celebrato con il tradizionale scambio dei regali la notte del 5 dicembre (la mattina del 6 dicembre in Belgio, Lussemburgo, Fiandre e Lorena). Rappresentato come un vescovo vestito di rosso con la barba bianca, gira per le vie di Amsterdam in sella ad un cavallo bianco e distribuisce dolci e regali ai bambini. L’abbigliamento richiama i colori dell’iconografia bizantina del santo, ma è curioso che egli si presenti come un vecchio, mentre la praxis alle fanciulle si colloca nella prima giovinezza del santo.

Per tracciare l’evoluzione di Sinterklaas in Babbo Natale dobbiamo partire dalla Riforma Protestante e considerare come elementi di diversa natura (mitici, agiografici, sociologici, iconografici e di costume) si siano combinati tra loro. Il nostro Babbo Natale rappresenta un sincretismo globale che riassume in sé caratteristiche di origine religiosa e pagana, cattolica e protestante, romana e nordica.

Innanzitutto, è innegabile l’influsso del Father Christmas della tradizione anglicana. Si tratta di una figura indipendente da San Nicola, una personificazione del Natale attestata a partire dal 1600: il personaggio è il protagonista dell’opera teatrale di Ben Jonson Christmas, His Masque, che fu rappresentata alla corte del re d’Inghilterra James I con l’intento di far riscoprire tradizioni natalizie che erano state soppresse dai puritani. Qui Father Christmas compare come una persona con la barba lunga, un cappello coronato, scarpe bianche, una mazza e un tamburo; nell’opera di Josiah King The Examination and Tryal of Father Christmas viene addirittura sottoposto ad un processo per la restaurazione del Natale dopo le restrizioni della guerra civile inglese.

Father Christmas

Father Christmas è a sua volta un prodotto sincretico di numerose altre figure della mitologia norrena e britannica, come “il Re Inverno”, lo “Spirito della Foresta”, “L’uomo Verde” (non a caso dalla festa nordica del solstizio di inverno, detta Yule, ha avuto origine l’Albero di Natale), o addirittura è ipostasi dello stesso Odino, che con una lunga barba bianca e un mantello blu con cappuccio montava su cavalli a otto zampe dispensando doni ai buoni e castighi ai cattivi.

Odino e Santa Claus

E ancora Father Christmas sembra rivivere nello Spirito del Natale Presente, che compare nel celebre Canto di Natale di Charles Dickens del 1843 e che presenta ancora questi tratti “naturali”: nella famosa illustrazione di John Leech esso era raffigurato come un uomo grasso, con un abito in pelliccia verde e una corona di agrifoglio in testa.

leech dickens third visitor John Leech,1843

Tuttavia, il Father Christmas è ancora molto lontano dalla figura di Babbo Natale. Tra san Nicola e il moderno portatore di doni a bordo di una slitta si colloca infatti la Riforma Protestante. Come Father Christmas, così anche il culto di Sinterklaas subisce una forte stroncatura e viene sostituito da Martin Lutero con il culto del Cristo Bambino (Christkindl, poi divenuto Kris Kringle), da celebrare non il 6 dicembre, ma la Notte di Natale. I luterani abolirono il culto dei santi cattolici ma mantennero la tradizione dello scambio dei doni ai bambini.

Del resto, è tipico di una nuova fede non cancellare del tutto le credenze precedenti ma integrarle al suo interno. La stessa festa del Natale è erede della grande festa pagana del Sol Invictus, celebrazione che la Chiesa, per non privare il popolo del grande appuntamento festivo del 25 dicembre, sostituì a partire dalla metà del IV secolo proprio con la Nascita di Gesù. Lo scambio dei doni era praticato durante gli spassosi Saturnali, che nella Roma Imperiale si svolgevano proprio a ridosso della Festa del Sole, ossia dal 17 al 23 dicembre. Se i Saturnali rappresentavano una sorta di carnevale ante litteram, poiché in essi si celebrava l’inversione dei ruoli sociali (il padrone diventava un servo e lo schiavo un dominus), durante quei giorni i Romani erano soliti scambiarsi dei doni (soprattutto statuette fittili note come sigillaria). La consuetudine del dono era dunque praticata già in prossimità del 25 dicembre, e curiosamente l’intervento di Lutero sembrava restituire ai giorni del Natale una usanza che trovava esatta corrispondenza nel calendario della Festa del Sole della Roma pagana.

Anche in Olanda l’intervento del luteranesimo ebbe sensibili conseguenze per San Nicola: nel 1600 furono emanati addirittura dei veri e propri decreti di lock-down per proibire le feste in suo onore. In una di queste ordinanze (rintracciate da Karl Meisen nel suo Nikolauskult and Nikolausbrauch im Abendlande del 1931, ad oggi ancora il più imponente studio dedicato al santo) leggiamo che:

“Poiché i magistrati [di Amsterdam] sono venuti a conoscenza che negli anni precedenti, nonostante la pubblicazione del regolamento, nella vigilia di San Nicola varie persone si trovavano in Piazza Dam e in altri luoghi della città con caramelle, commestibili e altri prodotti, in modo che una grande folla da tutta la città si riunì […] gli stessi magistrati, per prevenire tali disordini e per togliere la superstizione e le favole del papato dalle teste dei giovani, hanno ordinato, regolato e opinato che nella vigilia di San Nicola nessuna persona, chiunque essa sia, debba trovarsi in Dam o altri luoghi e strade all’interno di questa città con qualsiasi tipo di caramelle, commestibili o altri prodotti. . . [sotto pena di multe molto severe]”.

Se nel Vecchio Continente protestante San Nicola era stato censurato o aveva subito un forte ridimensionamento, una sorte simile toccò al San Nicola d’Oltreoceano: infatti, gli Olandesi, che fondarono nel 1614 Manhattan come scalo commerciale, avevano portato con sé il culto di Sinterklaas, regolarmente celebrato con il tradizionale scambio dei doni nel giorno della morte del santo, ossia il 6 dicembre. Ma quando la colonia olandese passò sotto il dominio britannico nel 1664 e fu ribattezzata New York, anche la festa fu vietata. L’effettiva e sotterranea sopravvivenza del suo culto fino alla fine del Settecento nella città è tuttora argomento di dibattito tra gli studiosi, poiché nei registri e negli annuari dell’epoca non sono rinvenibili tracce di celebrazioni o feste per il santo.

immagine di sinterklass in una casa americana del 1600

Fu all’inizio dell’Ottocento che Sinterklaas ritornò in auge nella Grande Mela, e questo avvenne per mezzo della riproposizione delle antiche leggende dei primi coloni olandesi e appartenenti al passato pre-britannico della città. Responsabili ne furono John Pintard e Washington Irving; il primo, patriota e ugonotto, fondatore nel 1804 della Historical Society di New York, scrisse  un opuscolo in cui Sinterklaas figurava come l’antico patrono della città, il secondo, scrittore e saggista di origini scozzesi,  autore nel 1809 di A History of New York pubblicata sotto lo pseudonimo di Diedrich Knickerbocker, rappresentò per la prima volta san Nicola su un carro volante, quel “carro con cui St. Nicholas consegna annualmente i suoi doni ai bambini”. Nel libello era riportata una vecchia poesia in olandese corrotto con una traduzione in inglese in cui Sinterklaas era indicato come “Sancta Claus”.

L’operetta, dal carattere ironico, divenne molto famosa nei circuiti giornalistici e tramite i volantini, ma la vera svolta nell’iconografia di Babbo Natale avvenne nel 1822, quando fu pubblicata sul giornale Sentinel Troy una poesia anonima dal titolo An Account of a Visit of St. Nicholas, poi nota come The Night Before Christmas (“La notte prima di Natale”): si trattava di un racconto per bambini dove Santa Claus compare con le fattezze di “un vecchio elfo paffuto e grassottello”, con la barba bianca e il vestito rosso, in sella ad una slitta trainata da renne per portare doni ai più piccoli che lascia passare dai camini delle case la sera della vigilia di Natale.  Solo dopo 16 anni, nel 1838, la paternità della poesia fu assegnata a Clement Clarke Moore, professore di Esegesi Biblica e Letteratura greca e orientale presso il Seminario Teologico della Chiesa Protestante di New York, e nel 1863 il disegnatore statunitense di origine tedesca Thomas Nast ne ricavò delle illustrazioni che contribuirono a diffondere definitivamente l’immagine moderna di Santa Claus. Tra queste, quella del 1881 a colori rappresenta il prototipo iconografico ormai pienamente corrispondente al nostro Babbo Natale.

Merry old Santa Claus by thomas nast

Tale immagine si diffuse presto presso le riviste, come nella copertina dell’americana Puck illustrata dall’australiano Frank A. Nankivell o nelle raffigurazioni di Norman Rockwell negli anni ‘20; finanche in Giappone Babbo Natale appare vestito con abiti bianchi e rossi.

Babbo Natale Giappone 1914

A partire dalla fine dell’Ottocento anche le bevande analcoliche cominciarono a utilizzare Babbo Natale per la pubblicità. Del 1890 è l’immagine promossa dalla Newball & Mason di Nottingham.

Nottngham

Sempre negli anni ’20 la White Rock del Wisconsin e la più famosa Coca Cola cominciarono a utilizzare l’icona di Babbo Natale per le loro campagne sulle riviste. La Coca Cola, contrariamente a quanto si legge spesso, non fu quindi la prima azienda, e i colori bianco e rosso non furono una sua invenzione, ma la coincidenza cromatica fu sfruttata per rilanciare le vendite della bibita. Fu il disegnatore del Michigan Haddonm Sundblom a partire dal 1931 a rendere immortale il Santa Claus con la Coca Cola in mano.

Coca Cola

Dal rosso di San Nicola, al blu di Odino, dal verde del Father Christmas, al rosso e bianco del Novecento: il balletto dei colori, che ci provoca tanta trepidazione quotidiana, l’ha vissuto sui suoi abiti proprio il nostro Babbo Natale!

Da questa breve panoramica noi cittadini costretti al lock-down possiamo ricavare due insegnamenti. Il primo, è che lo spirito del dono che caratterizza il Natale non è il bieco risultato di una operazione commerciale, imputabile magari a qualche scaltra azienda come la Coca Cola, né Babbo Natale è un doppione anglosassone e ormai globalizzato della nostra italica befana, che trae origini dal culto agreste dell’antica Roma e nella voglia di rinascita che porta a sperare che ogni nuovo anno sia migliore del precedente (la distruzione come atto prodromico per un anno che ci si augura migliore è spesso ritualizzata nelle feste patronali, si pensi allo sfascio del Carro della Madonna della Bruna a Matera e il detto augurale “di bene in meglio per l’anno che viene”). Il dono, simbolo del Natale, è storicamente incardinato nei gesti da benefattore del vescovo di Myra San Nicola: e come il Natale era la festa preceduta dallo scambio dei doni nei Saturnali, così San Nicola, pur traferito al 25 dicembre, è rimasto il simbolo della generosità, della prodigalità affettuosa, della gioia dei bambini. Questo è lo spirito con cui lo cita Dante, che ci ricorda come la beneficenza sia atto tanto più degno quanto più intimo e segreto.

Il secondo insegnamento lo possiamo ricavare dal lock-down (o italicamente detto “confinamento”) che anche il culto del santo subì. Fu proprio questa forzata repressione a ridare maggiore slancio alla riproposizione di san Nicola negli Stati Uniti, quasi un momento hegeliano di antitesi che prelude ad un risveglio più maturamente convinto. Ed è proprio da questa consapevolezza dobbiamo ripartire più forti di prima, non appena la riapertura e la tanto attesa normalità ci permetteranno nuovamente di donare e donarci agli altri, grandi e piccini, con una rinnovata spiritualità.

 

 

 

 

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