ALAIN DELON, ECCO CHI FU TRA TANTI IL SUO REGISTA IDEALE. CE LO RACCONTA LAURENT GALINON NEL SUO DOCU-FILM

di Carmela Moretti

Con un lavoro documentaristico eccellente, il regista e scrittore francese Laurent Galinon si conferma uno dei massimi esperti di Alain Delon. Questa volta ci svela qualcosa che in pochi sanno: chi fu per Delon, tra i tanti che incontrò, il suo regista ideale?

Da italiani, un po’ per orgoglio, un po’ per affetto verso i suoi capolavori, ci viene subito in mente Luchino Visconti, che all’attore francese riservò ruoli memorabili.

Non è lui, in realtà.

Nel docu-film di Galinon, « DELON MELVILLE, LA SOLITUDE DE DEUX SAMOURAÏS » – presentato alla Casa del Cinema nella programmazione del Festival del Cinema di Roma 2024 – è Delon stesso a rispondere a questa domanda, in un’enigmatica intervista che risale al 1973.

Qui, l’attore appare chiaramente con occhi remoti, perduti in chissà quale inquietudine lontana, come se non fosse più nel mondo dei vivi. Dichiara che il più grande regista con cui avesse avuto l’onore di lavorare fosse Jean-Pierre Melville e, parlando al presente, si augura di poter riprendere con lui un prolifico rapporto professionale.

Melville, però, è morto alcuni mesi prima. Delon lo sa benissimo. Sembra che il suo amore per lui sia sopravvissuto alla morte stessa.

Il film inizia con la scena di una macchina che viaggia nel cuore della notte. Il riferimento è chiaro, in quanto è storia abbastanza conosciuta che, appresa la notizia della morte, Delon percorse molta strada per raggiungere Parigi. Si recò al capezzale del suo regista Jean-Pierre Melville e, come molti testimoniarono, pianse per tutta la notte.

Jean-Pierre Melville e Alain Delon

 

Ciò che, però, il docu-film rende davvero “epifanico” è la profondità di questo rapporto, così intenso, particolare, misterioso. A raccontarcelo sono i personaggi e i giornalisti intervistati, tra cui: Philippe Labro, scrittore e regista; Luc Larriba, attore e giornalista di cinema; Samuel Blumenfeld, giornalista di “Le Monde”; Rémy Grumbach, produttore e nipote di Jean-Pierre Melville; Éric Neuhoff, scrittore e giornalista di “Le Figaro”; Jean-François Delon, fratello di Alain.

Dalle loro testimonianze, apprendiamo che tra i due avvenne qualcosa di simile a ciò che accade agli innamorati, nel corso di una vera storia d’amore. Quando Melville e Delon si incontrarono, si riconobbero. Per affinità di carattere e per comune sentire, ebbe inizio un sodalizio artistico perfetto, che raggiunse la sua acme con il film “Le samurai” del 1967 (tradotto in italiano- chissà perché – con il titolo “Frank Costello faccia d’angelo”). Raggiunto il punto di saturazione, il rapporto si sfilacciò e i due presero strade diverse, pur continuando a provare un forte affetto reciproco.

Allora, che cosa fece sì che un regista rimasto per sempre ai margini della storia del cinema francese fosse per Delon il più grande di tutti? Non c’è una spiegazione oggettiva, come non c’è mai in “affari” di questo tipo.

Emerge che si trattò di magia, di complicità, di ammirazione. Di un amore quasi filiale, alla cui fine Delon non volle credere.

Il film-documentario di Galinon, dunque, risulta davvero ben costruito.

È equilibrato, poiché alterna in maniera ben soppesata interviste, spezzoni di film, scene d’archivio. La voce narrante di Judith Perrignon, inoltre, carica di mistero e intensità una storia già di per sé affascinante. Il montaggio, infine, dà all’opera il ritmo sostenuto di un’inchiesta, ma anche la scansione giusta per un approfondimento psicologico.

Così, a pochi mesi dalla sua scomparsa, abbiamo un tassello in più per provare a capire Delon, uno dei personaggi più sfaccettati, sfuggenti e discussi del cinema mondiale.

Il regista e scrittore Laurent Galinon

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