“AGORÀ”, regia di Alejandro Amenábar, 2009

di Carmela Moretti

Che cosa fa di un film un “buon film”? I critici saprebbero come rispondere a questa domanda. Noi, spettatori comuni, forse no; ci nutriamo quasi esclusivamente di emozioni e assegniamo la nostra personale Palma d’oro a questo o a quel film.

Agorà dello spagnolo Alejandro Amenábar, presentato fuori concorso al festival di Cannes nel 2009, non ha ottenuto il consenso unanime della critica. Squilibrato, farraginoso, eccessivo, hanno detto alcuni. Ma noi, che sosteniamo l’autonomia di pensiero, vogliamo dire la nostra.

Agorà è un film che va gustato per diverse ragioni.

Innanzitutto, per la storia. Ipazia, una scienziata e una filosofa vissuta nel 391 d.C ad Alessandria d’Egitto, sceglie la morte pur di preservarsi libera nel corpo e nella mente. In un clima feroce, in cui le tensioni tra pagani e cristiani si accentuano, la giovane figlia di Teone consacra la sua vita alla filosofia neoplatonica e soprattutto all’astronomia. Si spinge oltre le teorie del tempo e arriva quasi a teorizzare un modello eliocentrico (molti secoli prima della Rivoluzione scientifica) quando i cristiani, accecati dal fanatismo, decidono di linciarla. Di Ipazia ci sorprende il coraggio, la caparbietà e l’entusiasmo con cui difende un sapere libero e svincolato dal potere.

Lo scontro tra mondo laico e pensiero religioso è il leitmotiv di tutto il film; ma Agorà piace anche per la ricostruzione degli ambienti, per la mirabile interpretazione di Rachel Weisz, per la bellezza dei costumi, per l’equilibrio tra azione e riflessione.

Anche l’idea di un finale più dolce, sebbene lontano dalla verità storica, convince e commuove: Ipazia si lascia strangolare da un servitore innamorato di lei, che così la sottrae alla ferocia dei cristiani.

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