“YOUTH – LA GIOVINEZZA” di Paolo Sorrentino, Italia, Francia, Svizzera, Gran Bretagna 2015

di Francesco Monteleone

 Sorrentino chiagne e fotte dicono a Napoli, la sua città; in questa erudita opera morale egli critica il cinema fino a disprezzarlo, ma i suoi film sono uno più ‘bellissimo’ dell’altro, in progressione geometrica. Youth incasserà una vaghezza di ricchezza, non si rafforzerà con inanimati premi, ma è già un film perdutamente classico, anzi un neo-classico hollywoodiano.

E ora un soffio di trama, senza decrescere nella sinossi: due famosi artisti, finiti nella galera della vecchiaia, trascorrono insieme un breve periodo di lussuosissime ferie in Svizzera. Per non vegetare tra massaggi e pranzetti salutisti i due amici (e consuoceri) si sporgono sulla loro deteriorata memoria senile, per riflettere sui peccati giovanili, che certamente non potranno riassaporare. Il musicista (Michael Caine) e il regista (Harvey Keitel) in un esclusivo albergo munito di pascoli, alpi, beauty-farm e ospiti tanto ricchi da fare schifo si sentono temporaneamente al riparo della mattezza sociale. Ma Sorrentino (che ha scritto la sceneggiatura) vuol dimostrare che Chella è carne vennuta! Il successo e la ricchezza sono menzogne pericolose per chi ci crede troppo. Così, a mo’ di inconsolabile esempio, il regista espone al pubblico dileggio il suo idolo calcistico e raschia la pelle a Jane Fonda, come fece Raimondo di Sangro con le macchine anatomiche.

Ma il peso atomico del film è la vulnerabilità: è vulnerabile ‘la monarchia’, perché un anarchico può uccidere il re. È vulnerabile ‘l’amore’ che finisce senza rimedio per una malattia mentale o un tradimento. È vulnerabile ‘la vita’ stessa, che decade nella bruttezza del corpo o precipita nel suicidio. Perché questo film si chiami LA GIOVINEZZA, a noi il cervello non ci arriva. Forse il titolo approssimativo serve alla propaganda, oppure è la metafora del rimpianto… Più convincenti sono le scolature di luce sui corpi umani fatte da un grande direttore della fotografia. Sovrastanti sono i dialoghi ‘socratici’, gradevolmente e intensamente socratici. Mancano battute memorabili alla Woody Allen, ma le parole tintinnano nella mente con ironia, ispirando verità. La recitazione degli attori è lìncea, penetrante, schietta, sprecata come lo champagne servito in un bicchiere di plastica, anche se il doppiaggio italiano di Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda è magnifico.

Visto che abbiamo iniziato, continuiamo a spacciarci per napoletani, affermando che Paolo Sorrentino Addò vere e addò ceca (Dove vede e dove non vede): affermare che il cinema è morto perché ‘la televisione è il futuro, anzi è il presente’ è come dire che non nascerà più nessun Montale e tutti parleremo come Ignazio La Russa. Il cinema è un linguaggio, non un prodotto. Questo film dà tanti temi che potremmo non finire più. Caviamocela, scegliendo due citazioni: un provino di attrici su un prato ebbro di profumi che ricorda il miracolo della moltiplicazione di Gesù Cristo. Lo sfortunato Paul Dano che poteva agganciare in perfezione gli altri colleghi fuoriclasse, ma ha sbagliato ‘un rigore al novantesimo’: la sua ultima espressione nella platea del teatro doveva essere di commozione, invece l’attore sembra il San Francesco in estasi del Pinturicchio. Fine del discorso. Questo film risplende, il nostro voto è 9. Ha una dedica che commuove. Scopritela, rimanendo in sala fino ai titoli di coda, anche se la logorata prostata vi infastidisce.

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