UNA MAGISTRALE LEZIONE DI STORIA DEL CINEMA SOVIETICO, INTERVISTA A PETER BAGROV

di Ekaterina Volkova

Intervista a Peter Bagrov, curatore di una rassegna sul cinema sovietico alla passata edizione del ‘Cinema Ritrovato’ di Bologna.

Ėjzenštejn, Tarkovskij e Vetrov sono i nomi più noti nella storia del cinema russo, ma non gli unici e i più importanti. Il 1934 fu spartiacque tra cinema muto e sonoro, momento di sperimentazione, creatività, ispirazione ed esempio per tanti autori futuri.

Come nasce la scelta del repertorio sovietico presente quest’anno al festival del Cinema Ritrovato?

Esistono due festival principali sul cinema d’archivio: Il Cinema Ritrovato, a Bologna, e le Giornate del Cinema Muto, a Pordenone. A Pordenone, si proiettano esclusivamente film muti, tra i quali è presente un ampio repertorio sovietico. Nel festival bolognese, volevo proporre una selezione inedita rispetto alle giornate del cinema muto, perché spesso le due manifestazioni sono frequentate dagli stessi appassionati, per lo più cineasti e studiosi. Di solito, le rassegne sul cinema russo presenti a Bologna sono monografie che comprendono registi dal cinema muto fino agli anni Sessanta. Quest’anno mi sono detto: se l’avanguardia sovietica del cinema muto attira così tanta attenzione, perché non approfondire il prodotto di quella corrente cinematografica, ovvero la nascita del cinema sonoro? Un periodo davvero interessante, ricco di esperimenti con la musica, con autori come Šostakovič e Prokof’ev, e con altre forme espressive. Inizialmente, si pensava ad una rassegna dedicata ai primi anni del cinema sonoro ma poi ho realizzato che si sarebbe trattato di un arco temporale troppo vasto, perché il nostro spazio prevedeva soltanto 8-10 proiezioni. Avrei dovuto scegliere pellicole canoniche, come Chapaev, Il cammino verso la vita e Okraina (Il sobborgo) ma non ero interessato ad un programma del genere, ritenendo che non fosse originale per chi già conosce il cinema sovietico. In alternativa, avremmo potuto includere pellicole poco note, escludendo le più importanti, il che sarebbe stato limitante. Alla fine, considerando una selezione di circa 30 film, ho notato che i più significativi erano stati prodotti nell’anno 1934, un momento spartiacque tra la sperimentazione pura e l’affermazione del gusto maturato durante l’esperienza del periodo muto, un’armonia assoluta dal punto di vista creativo, commerciale e politico. Per questo, abbiamo proposto una rassegna dedicata al cinema del 1934, che comprende film molto vari, in quanto in quel periodo si giravano ancora pellicole mute assieme a quelle sonore.

Chapaev
Chapaev

Qual è la caratteristica principale del cinema sovietico di quel periodo?

L’impiego del suono, che influisce su tutto: sulla recitazione e sulla fotografia, perché, ad esempio, alcuni movimenti di camera, come le panoramiche, non sono più possibili perché vincolati alla ripresa audio. Influisce anche sul montaggio e, naturalmente, sulla colonna sonora. Da un lato, nascono film con musiche di Šostakovič e Prokof’ev; dall’altro, si affermano i primi eroi popolari: Chapaev e Maksim. Appaiono film di genere, come la commedia musicale, Garmon (La fisarmonica). Da questo cambiamento estetico ed espressivo traggono giovamento anche i film muti, che tra il 1933 e il 1935 vengono influenzati da quelli sonori. A quei tempi, in tutto il mondo e anche in Russia, la tecnica di registrazione del suono era imperfetta. Per questa ragione, nasce un modo di recitare innaturale, sopra le righe; un difetto che non interessa il cinema muto che, al contrario, risulta più libero. In alcuni film muti la recitazione diventa talmente fluida e naturale da far pensare alle pellicole degli anni Cinquanta e Sessanta.

Garmon
Garmon

Con l’arrivo del suono sovietici nasce una nuova generazione di registi?

Certamente. Aleksandrov, ad esempio, è stato apprendista di Ėjzenštejn e anche suo assistente. E andato con lui a Hollywood, facendo tesoro dell’esperienza americana, e ha iniziato a fare musical sovietici, seguendo i criteri appresi durante questo soggiorno. Anche se già presente nei titoli di coda come co-regista di Ėjzenštejn, il vero Aleksandrov nasce con l’arrivo del suono. Un altro esempio sono i fratelli Vasiliev, che erano già operativi nel cinema muto come rimontatori, perché adattavano i film stranieri per il pubblico sovietico. Ma i loro meriti maggiori sono riconosciuti nel cinema sonoro, quando è uscito Chapaev.

 

Ėjzenštejn

Il suono approda nel cinema russo in ritardo rispetto al resto del mondo?

In Russia, viene proiettato il primo film parzialmente sonoro nel 1927, Il cantante di jazz, un film americano. Nel 1928 esce un film completamente sonoro. Negli Stati Uniti, ad eccezione di qualche pellicola sperimentale, già nel 1930 non esiste più alcun film muto ma soltanto cinema sonoro, come avverrà poco più tardi in Germania e in Francia. In Russia, soltanto nel 1931 si produce il primo lungometraggio sonoro, Il camino verso la vita, mentre il resto del mondo ne produce ormai da un anno. In Russia, fino al 1935, si continuano a fare film muti assieme a quelli sonori. Non solo ma, fino al 1940, si girano versioni mute dei film sonori, destinate a quelle sale non attrezzare alla diffusione dell’audio. Non eravamo gli unici al mondo, perché anche in Giappone il cinema muto e quello sonoro hanno convissuto per lungo tempo. Questo dipende soprattutto dal costo delle tecnologie. In Russia, la situazione dell’attrezzatura cinematografica era precaria, perché si comprava tutto all’estero. Avevamo, però, due costruttori nazionali di materiali audio: Shurin, a Leningrado, e Tagher, a Mosca.  Ma, nonostante questo, la Russia rimaneva un paese isolato. Anche l’arrivo della pellicola a colori è stato tardivo. Negli Stati Uniti già nel 1925-26, o addirittura prima, si producevano lungometraggi muti a colori. In Russia, il primo risale al 1936, mentre la produzione industriale delle pellicole a colori inizia soltanto dopo la Guerra.

Quali sono i temi principali affrontati dagli autori degli anni Trenta?

Direi che non è corretto parlare di un cinema sovietico degli anni Trenta, perché si richiama un concetto troppo vago. Tra il 1931 e il 1937, in un certo senso è come se ci sia un passaggio secolare perché, circa ogni due anni, tutto cambia radicalmente. Il 1934 rappresenta ancora una tappa felice prima del Grande Terrore del 1936. In politica questo cambiamento si avverte già dopo l’omicidio di Kirov, all’inizio del ‘35, ma nel cinema avviene dopo. Il 1934 è il tempo della libertà, della fine della collettivizzazione e delle sue conseguenze: termina la prima ondata di arresti e Stalin pronuncia il suo slogan più famoso: “la vita è diventata migliore, più divertente”. Sulla scia di questa nuova visione, nasce un’attenzione diversa al divertimento; viene diffuso il cinema straniero, si inizia a parlare di cultura borghese e di pubblicità. Cambia il modo di vivere: la gente si veste in maniera sfarzosa e va a ballare, confortata da un’apparenza diffusa di libertà. Kozincev definisce questo periodo come “seconda utopia”.

Per “prima utopia” si intende il periodo dopo il 1917, quando la gente, abolita la monarchia, credeva nell’arrivo di un futuro migliore. È un anno di grandi aspettative che precede il comunismo e tutto ciò che ne consegue. Agli inizi degli anni Trenta, in un diffuso scenario catastrofico, lo stato del cinema è critico, perché tutto è vietato. Occorre del tempo per trovare un compromesso ed un linguaggio comune fra artisti, pubblico e governo. Una volta raggiunto, però, si inizia a girare di tutto. Il filone storico-rivoluzionario, come Maksim o Chapaev, diventa un cliché. Un elemento costante dei film è il tema dell’industrializzazione e della collettivizzazione. Si mostravano ovunque fabbriche e miniere. Autori come Kozincev e Trauberg erano, invece, molto interessati a raccontare la società rivoluzionaria, la vita tra il 1900 e il 1910. Nel tentativo di immergere lo spettatore nello spirito del decennio e nella nascita della rivoluzione, i registi fornivano affreschi dettagliati, in cui figuravano prostitute, gentiluomini, spie e contestazioni. Un altro filone mostrava film idealistici, come Garmon’, una fattoria collettiva, dove tutti cantano e ballano in armonia e non si trionfa usando le armi ma grazie al potere della musica. Un idillio assoluto. Da questi film nasce un genere nuovo, la commedia musicale. È un periodo molto affascinante perché incredibilmente ricco. Gli autori, ispirati dal clima di apparente libertà, creano tanti soggetti diversi ma alcuni film non troveranno diffusone. Nel 1935, infatti, inizia una prima serie di divieti, inaugurata con Il prato di Bežin di Ėjzenštejn.

Quali sono alcuni autori russi immeritatamente poco conosciuti?

Ce ne sono tanti e non per colpa della censura ma perché il gusto ha favorito alcuni a scapito di altri. Anche nei festival le proiezioni seguono lo stesso criterio. Per esempio, parlando degli anni Trenta, mi viene in mente Fridrich Ermler: un gigante, tra i più importanti nella storia del cinema mondiale e non soltanto russo, un regista, amico di Ėjzenštejn, ammirato da Chaplin e Pabst. Eppure, oggi il suo nome è quasi dimenticato. Abbiamo appena restaurato un suo film muto, Detrito dall’impero, che è stato proiettato a San Francisco riscuotendo un gran successo di pubblico e che sarà presente a Pordenone. Un altro nome importante è Mark Donskoj, rimasto sconosciuto al pubblico mondiale finché, negli anni Quaranta e Cinquanta è stato “recuperato” in Italia e in Francia. I neorealisti italiani lo consideravano come un maestro. Parliamo di Rossellini, Fellini e anche di Godard e Truffaut. Purtroppo, oggi è di nuovo dimenticato ma mi auguro che non lo sarà per sempre. Bisogna continuare a ricordare questi registi, mostrarne i film e restaurarli. Questo è il lavoro dei festival e di chi lavora negli archivi. Non soltanto nel cinema russo ma anche in quello mondiale ci sono nomi immeritatamente dimenticati, come altri a mio parere sopravvalutati. Non parlo certo di Ėjzenštejn ma, forse, di Vetrov. Secondo me, il cinema di Tarkovskij è sopravvalutato. Se consideriamo le pellicole sovietiche degli anni Sessanta e Settanta, Tarkovskij è l’unico regista conosciuto all’estero. Ma al suo fianco c’è Marlen Chuciev e un grande regista come Aleksej German, sicuramente non meno significativo, anzi, probabilmente più importante. È da poco scomparsa Kira Muratova, una tra i più grandi autori del cinema mondiale. Tarkovskij è un regista meraviglioso che ha goduto del favore della popolarità, che è stato molto intervistato e che ha inaugurato una poetica che ha affascinato il pubblico. Herman è di più difficile lettura ma ciò non toglie che sia un regista altrettanto capace. Ovviamente, non bisogna dimenticare Tarkovskij ma, approfondendo lo scenario cinematografico russo del suo periodo e conoscendo altri registi, si potrebbe avere una visione più completa e capire meglio il valore obiettivo del suo cinema.

 

Ermler
Maksima

 

Chaplin o Keaton?

Chaplin, non ho alcun dubbio. Charlie Chaplin è stato davvero un gran regista, mentre Keaton non lo è stato. Secondo me, La donna di Parigi è uno dei film migliori nella storia del cinema mondiale. Anche ne Il circo o in Monsieur Verdoux, dove Chaplin recita, si nota una regia di alto livello. Chaplin è universale. Keaton, nonostante la simpatia che suscita, è una maschera, molto originale e interessante. Ma Chaplin non è una maschera, è una filosofia. Il suo merito maggiore è stato conquistare, non tutto il mondo, ma un pubblico molto diverso: dagli spettatori comuni e i bambini, che lo adorano, agli studiosi e i filosofi che hanno perso la testa per il suo cinema. A mio modo di vedere, Chaplin ha arricchito il pensiero umanistico, sublimando la forma del cinema in un’espressione di cultura alta, paragonabile a Shakespeare. Potrebbe sembrare eccessivo ma io lo credo veramente.

Ekaterina Volkova, autrice dell’intervista

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