SEROTONINA di Michel Houellebecq

di Luciano Aprile

Deve essere cambiato qualcosa nell’aria se oggi Houellebecq, all’uscita di un suo nuovo romanzo, non suscita più le reazioni indignate dei giornali e del pubblico politicamente corretto. Se pare persino piacere a quel pubblico colto, di sinistra che lo aveva subito odiato e paragonato alla versione posticcia e mediocre di un ‘Celine de noantri’, altro maledetto francese, poi perdonato e riabilitato.

Gli si rimproverava, nell’ordine, il sessismo, il razzismo, il cinismo, il cattivismo. Sì bisogna cominciare ad usarlo questo neologismo, visto che il suo opposto-complementare (‘buonismo’) va molto di moda magari come clava linguistica per bollare, da destra, tutte le prese di posizione che indulgono, di certo ipocritamente, dicono loro, alla solidarietà, all’accoglienza, all’empatia persino, interpretata, sempre da destra come un lavaggio della coscienza a buon mercato. Cattivismo invece va bene per definire lo stile (solo letterario, esistenziale o ideologico-politico?) di Michel, che è proteso ad esasperare tutti gli aspetti schifosi dell’odierna società, della comunicazione mediatica, delle relazioni sclerotizzate fra le maschere sociali che pervadono la scena sociale e/o virtuale.

È come se Houellebecq dicesse: “Ma non lo vedete come tutti siamo ormai dentro una medesima bagnarola maleodorante di clichè, di mode, di meccanismi automatici, oggi dettati dai dispositivi, dai gadgets dei quali siamo diventati dipendenti assoluti? Non vedete come siamo alla fin fine tutti drogati di qualcosa, di un farmaco, di un oppiaceo, di un dispositivo, di un’abitudine sociale che non possiamo mancare? E soprattutto, non vedete come siamo perennemente dipendenti dalla fica, questo bene assoluto sempre presente -il protagonista narrante dice testualmente in Serotonina, che lo sgomenta pensare quante fiche ci sono al mondo, continuamente- un mondo che pure oggi è rimasto oggetto di un desiderio solo mentale, perché si è diventati tutti frigidi, forse perché vecchi, o forse perché è sparito l’eros dal mondo, e al suo posto c’è la pornografia, che è pura virtualità, idea platonica da copiare, da mimare per poi fallire, inevitabilmente, perchè la vita non è un porno.

Il sesso: l’altro vizio di questo scrittore che non gli veniva (gli viene ora?) perdonato, perché la sessualità in un romanzo non può che essere un trucco, un’esca per attrarre il pubblico vorace di scene, di amplessi, di leccate, di trasgressioni, ma che poi le tratta come una porcheria subculturale indegna di stare nello spazio letterario, uno spazio che si pretende ‘spirituale’. Dimenticando che l’osceno è parte integrante della scrittura, dell’immaginario, è tassello dominante del puzzle dell’esistenza. Dimenticando che ci sono stati gli Henry Miller, i Genet, gli Artaud o perfino Baudelaire per rimanere nel recinto francese. Ma a saperlo leggere, Houllebecq, le parentesi pornografiche, come la droga di quest’ultimo romanzo, sono la cifra metaforica di un mondo umano che si va decomponendo, le cui sovrastrutture ideologiche sono putrefazione allo stato puro, mentre la struttura sottostante (quella che in Marx era determinata dai rapporti di produzione) rimane la carne, il desiderio ipertrofico, perchè sempre il desiderio, per rimanere se stesso, cioè per conservare o implementare la vita, deve osare, deve crescere, deve volere di più e siamo entrati da tempo in un vortice simbolico in cui non basta più niente: occorre stordirsi, evadere, tramutarsi in altro; ‘divertirsi’, direbbe un altro francese dalle antenne lunghe, Blaise Pascal, per non restare mai soli con se stessi, per non sopportare di doversi sentire chiusi e soli nella propria cameretta benché piena di di computer, di dispositivi, di social, di contatti digitali, di schermi di tutte le forme. Il mondo ormai è posticcio, è finto, è virtuale: la realtà è stata abbondantemente assassinata, direbbe un altro francese maledetto, Jean Baudrillard, che romanziere non era. Lo si odia o lo si ama Houllebecq. E anzi quella cameretta pascaliana è ormai come una piccola astronave dalla quale avadere altrove.

È sgradevole, Houellebecq, non c’è dubbio, ma come tanti scrittori, anche alcuni di quelli ritenuti ‘classici’ che hanno intrattenuto con la letteratura un rapporto ispirato al male. O, se volete, che hanno vissuto un corpo a corpo con il male, assorbendone l’umore, intossicandosene senza uscirne vivi talvolta, oppure semplicemente impazzendo: basti citare un po’ di autori che lo stesso H. dissemina qua e là lungo quest’ultimo romanzo: Baudelaire, Nerval,Thomas Mann, quello di Morte a Venezia, Dostoevskj, Conan Doyle. Che hanno ucciso se stesso o i propri alter ego narrativi

Poi c’è la vena profetica dello scrittore maledetto Houellebecq: il suo penultimo romanzo, “Sottomissione”, sembrava anticipare le tragedie del terrorismo islamista, e il suo libro usciva qualche giorno prima dei fatti dello Charlie Hebdo. Questo romanzo qua, invece, racconta con acribia televisiva o cinematografica l’esplosione, ‘giusta’, di una rabbia ‘contadina’, ovvero di chi oggi vive dei prodotti della campagna, della zootecnia, dell’agricoltura e si sente schiacciato da regole stupide come le quote latte. E la mente corre ai gilet gialli, e allora sembra quasi che Michel abbia stretto un patto col diavolo, e che sappia in anticipo quello che sta per sucedere. E per fortuna che non c’è il tempo necessario, fra l’uscita del libro e i fatti che gli succedono, perchè lo si possa accusare addirittura di ispirare lui stesso, con i suoi scritti perversi e malefici, le tragedie sociali di oggi.

Cattivismo dicevamo: da intendersi come l’esasperazione voluta di personaggi ed eventi e relazioni umane che tendono allo sfruttamento, al vampirismo reciproco, alla cupidigia, alla scaltrezza, ovunque, dall’ultima rozza periferia ai corridoi eleganti dei musei e delle università. Sotto sotto scorre, come la ‘storia universale eterna’ di Giambattista Vico, una provvidenza invertita, lo spirito umano in disfacimento, la fine della pietas, la pena per le nostre esistenze che non imparano niente dalla Storia, incarognite da un capitalismo sfrenato di cui le nostre coscienze, al pari dei nostri consumi sono una mera escrescenza. Per usare Spinoza è come se le nostre singole vite,i nostri mestieri, i nostri ruoli, le nostre maschere, fossero i ‘modi’, le espressioni multiformi di un’unica sostanza, che non ha niente di divino o di ‘naturale’,  ma che è il neoliberismo nudo e crudo, totalmente sdoganato; oppure l’essenza stessa dell’universo, la sua insensatezza, l’assurdità di ogni cosa, nonostante il nostro patetico aggrapparci alla vita continui a stimolarci pensieri cretini di eternità, di vita eterna, citando persino, proprio lui Houllebecq, quello sciamano cattolico che era Teilard de Chardin, che compare ad un certo punto nel libro, quasi per consolarci, sperando in un aldilà metacosmico, dall’avvicinarsi della vecchiaia definitiva e della morte (del protagonista, ma anche della nostra).

Per parlare della trama senza parlarne, per non cadere nello spoiler, la narrazione delle vicende del protagonista le paragonerei alle vicisittudini di Justine, l’ingenua protagonista del romanzo omonimo del Marchese de Sade. Ma qui è tutto capovolto: non si tratta delle ‘disavventure della virtù’, di una giovane ingenua e innocente ma di un uomo scafato e deluso ormai entrato conclamatamente nella vecchiaia; non subisce certo molestie sessuali ma anzi fallisce i suoi tentativi di rivitalizzare l’eros perduto e si trova suo malgrado nei panni tristi di un voyer; la rassegna dei personaggi che lo coinvolgono sono o patetici, rassegnati e disperati ex-amici, oppure donne onnivore, lussuriose e lontane: laddove nel racconto sadiano le femmine erano sprovvedute prede della famelicità maschile qui sono loro a dirigere le danze, letteralmente usando gli uomini e non solo. Basta così. Ho detto troppo. Ma non tutto, state tranquilli.

Non si può ignorare che la carriera di scrittore di Houllebecq non cominciò con un romanzo ma con un saggio: “H.P.Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita” (1991). Un altro scrittore, il maledetto di Providence (New England, USA) da lui amato fin dall’adolescenza, che attraverso la letteratura voleva far vedere un lato oscuro e perturbante della vita, la sua origine misteriosa e mostruosa, narrando storie sovrannaturali che affondano le loro radici in una mitologia archetipica grondante di entità mefitiche, eterne, totalmente ignare dell’umano, Dei antichi, preistorici, o malvagi o totalmente indifferenti, il che è lo stesso (Schopenhauer e Leopardi fusi insieme). Houllebecq effettua la stessa operazione di Lovecraft, escludendo il sovrannaturale, l’horror,e attenendosi ad un realismo lucido e spietato, degno di Machiavelli, osservando il reale contemporaneo e spostando il mirino semplicemente un po’ più in là, in un futuro che è possibile, orribilmente possibile. Ma non è fantascienza, non è horror, non è mainstream.

È filosofia: ma meno noiosa della filosofia.

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