I PANCHINARI DELLA “NAZIONALE D’ITALIANO”

di Carmela Moretti

C’è un posto molto particolare a Stresa, che se ne sta come una cosa dimenticata a pochi metri dal lungolago, proprio lì, sotto lo sguardo ignaro di milioni di turisti che ogni estate popolano la cittadina piemontese.

È una panchina di pietra fredda e grigiognola, su cui nei pomeriggi d’estate erano soliti sedersi padre Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni – rispettivamente il maggiore filosofo e il maggiore letterato dell’Ottocento italiano –, all’ombra di una magnolia grandiflora enorme, magnificente, che il solo guardarla riempie gli occhi.

“Raro esempio di flora mediterranea moltiplicatasi per propaggine”, spiega una targhetta accostata alla pianta. Nessun riferimento, invece, agli incontri tra i due intellettuali, come a voler tacitamente sottolineare che quell’angolo stresiano è sì uno scrigno di segreti, ma riservato a pochissimi intenditori: cioè a quanti sono davvero intenzionati a scoprirlo e rispettarlo, con devozione.

La panchina si trova nel giardino di Villa Ducale, un’abitazione signorile che s’affaccia sulla riva del lago poco lontano dalla chiesa della città. Qui il padre roveretano Antonio Rosmini venne a vivere il 14 novembre del 1850 per gentile concessione della nobildonna Anna Maria Bolongaro e vi restò fino al giorno della sua morte.

Sono tante le testimonianze che ci raccontano della stima profondissima che legava i due personaggi. In una lettera Rosmini si dice “felice di poter godere delle dolcissime passeggiate in compagnia del Manzoni”, mentre in un’altra missiva, una volta in cui non aveva potuto recarsi a Stresa, l’autore degli “Inni sacri”, Alessandro, scrive crucciato: “Non avrei mai creduto di poter provare tanto dispiacere per la malattia di un cavallo”.

Insomma, quando il Manzoni villeggiava a Palazzo Stampa nella vicina cittadina di Lesa, si recava quasi ogni giorno a far visita ad Antonio Rosmini e proprio su quella panchina, tra i profumi delle piante in fiore e un silenzio quasi irreale, discorrevano di filosofia, di letteratura, della politica del loro tempo (erano anni cruciali per l’Italia e per la formazione unitaria del Paese), ma soprattutto si scambiavano consigli pratici sulle loro rispettive opere. Sappiamo, per esempio, che  i “Promessi Sposi” conquistarono Rosmini per la nobiltà dei sentimenti in essi espressi e, dal canto suo, Manzoni apprezzò molto il “Nuovo saggio sull’origine delle idee” del Rosmini.

A suggellare l’amicizia tra i due, però, furono gli ultimi giorni di vita del filosofo, quando a raccogliere quello che è considerato il suo testamento morale, al capezzale, fu proprio il Manzoni.

Era il 10 giugno 1855. Antonio Rosmini era agonizzante nel suo letto di Palazzo Bolongaro, circondato dai medici e da alcuni fedelissimi amici, tra cui il Manzoni e il Tommaseo.

“Ah, per amore del cielo! Non dica questo. Che faremo noi?”, chiese addolorato l’autore dei “Promessi Sposi” al padre che invocava sorella morte.

“Adorare, tacere, godere”, rispose il Rosmini con un filo di voce. E il Manzoni tenne stretta la mano destra dell’amico nella sua, fino alla morte che lo colse il 1 luglio del 1855.

Ecco, di tanta stima e ammirazione ci restano certamente epistole e altre fonti, prezioso materiale raccolto nella Villa Ducale che oggi ospita il Centro Internazionale di Studi Rosminiani. Ciononostante, la testimonianza più sentita e più bella è proprio quella della panchina e della magnolia grandiflora.

Sono loro che hanno visto e ascoltato, e dei due amici conservano e ci restituiscono l’anima.

 

 

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